lunedì 24 novembre 2014

Doomraiser - Erasing The Remembrance (2009)

Tracklist:
1. Pachidermic Ritual (Intro)
2. Another Black Day Under the Dead Sun
3. The Raven
4. C.O.V. (Oblivion)
5. Vanitas
6. Head Of The River (Intro)
7. Rotten River:
    Part I - The River
    Part II - On the First Day Of New Dark Year for the World 01/01/08

Il mio battesimo al verbo dei Doomraiser avvenne per caso alcuni anni fa, probabilmente nel 2009, durante una serata in cui non si sapeva assolutamente cosa combinare. Dopo vari giri  approdai ad un locale che conoscevo bene, e che nonostante fosse meta prediletta dei metallari romani, non era così rinomato per i concerti che vi si svolgevano. Solitamente ci si trovavano gruppi porno-grind vegetariani o comunque formazioni molto legate all'underground e con poco o nessun interesse di uscirci. Le dieci-venti persone che quindi formavano il pubblico non erano quindi messe in difficoltà dalla colonna enorme che troneggiava al centro della minuscola sala, riuscendo nel quasi impossibile compito di bloccare la visuale a chiunque. Insomma, per non sapere cosa combinare, decidemmo di fare il biglietto, di scendere le scale e di dare un'occhiata al concerto appena iniziato. Non sapevo di star scendendo direttamente negli Inferi.

Appena aperta la porta insonorizzata sono stato investito da qualcosa di sulfureo, da un'aura di sacralità impensabile per quel locale. A scatenare questa sensazione particolare, irripetibile e difficilmente descrivibile, possono aver concorso vari fattori, dalla sala piena ad impedire qualsiasi movimento, dal livello di coinvolgimento del pubblico, già infervorato ai massimi livelli dopo pochi secondi, dall'ottima fattura dei picture disc bellamente esposti al banchetto del merchandising e dalle vecchie glorie che negli anni ho imparato a riconoscere sotto ai più svariati palchi. Visto tutto questo, e con la band che intanto vomitava riff pesantissimi, accompagnati da un cantante nascosto dietro ad una maschera di cuoio, mai avrei pensato che questi Doomraiser, gruppo che non avevo mai nemmeno sentito nominare, potessero essere Italiani e men che meno che fossero proprio di Roma.

Negli anni ho visto i Doomraiser in azione innumerevoli altre volte, ma l'intensità di quel concerto, accompagnata dal piacere di una grande scoperta, benchè i nostri continuino ad essere una garanzia sia dal punto di vista live, sia per quanto riguarda la qualità altissima delle centellinate uscite discografiche, non è più stata raggiunta.

Era appena stato dato alle stampe questo "Erasing The Remembrance", secondo lavoro in studio,  e già la band aveva alle spalle un grandissimo debutto "Lords of Mercy", numerosissimi split con realtà anche importanti del genere, ed una lunga serie di concerti in giro per l'Europa, soprattutto in Inghilterra, con presenze quasi fisse nei festival doom-stoner et similia.

Pochissimi mesi dopo uno dei due chitarristi fu sostituito da Willer Donadoni, già in forza nei Blackland insieme a due membri dei Doomraiser, ed il gruppo virò da sonorità molto orientate verso il riffone di chitarra ad un approccio maggiormente anni '70, con gran spazio all'improvvisazione e alla psichedelia. Con lui arrivò un importante utilizzo del Moog da parte del frontman Cynar, sia in studio che dal vivo, e l'uso di una effettistica molto più elaborata che andava a contrapporsi ai riff distortissimi da manuale dell'altro chitarrista Drugo, a mio avviso la vera icona del gruppo, insieme all'inconfondibile bassista BJ.

La proposta musicale dei Doomraiser si può quindi distinguere in due fasi importanti di egual valore: una prima fase molto più riff-oriented e più legata al doom tradizionale, fortemente debitore della lezione di Pentagram, Saint Vitus e Black Sabbath ed in misura molto minore, dei Candlemass; ed una fase sempre basata su una chiara matrice doom,  ma con aspetti più sperimentali e psichedelici, a partire dal terzo album "Mountains Of Madness".

Tralasciando una descrizione dei vari pezzi che compongono l'album, poco stimolante sia nella lettura sia, da parte mia, nel dover cercare aggettivi diversi per ogni traccia, lascio al lettore-ascoltatore il compito di scoprire gemme come "The Raven", "Rotten River" o "Vanitas", dove solidi riff di chitarra, il basso martellante di BJ ed il drumming scarno ed ossessivo di Pinna (che considero il batterista perfetto per questa formazione. Non riuscirei ad immaginarmi con nessun altro dietro alle pelli, nemmeno se si trattasse di Bill Ward) vanno a costruire un tappeto sonoro solido e pesante come una montagna, su cui si stagliano gli echi lamentosi ed accorati del già citato Cynar, che assumono quasi l'aspetto di un complicato rituale nei momenti più intensi.

Oggi, nel 2014, sono cambiati entrambi gli axemen, avendo reclutato Marco Montagna e Giulio Marini, già affiatati nei Nerodia, gruppo improntato maggiormente verso un death-black dal gusto antico. Vedremo quindi a Gennaio del 2015, quando verrà presentato, su quali aspetti verterà maggiormente il prossimo lavoro "Reverse (Passaggio Inverso)". Avendo comunque la certezza di non rimanere delusi per nessuna ragione al mondo.

Ascoltateli, e andate a vederli appena ne avrete la possibilità. Sicuramente non ve ne pentirete.

giovedì 2 ottobre 2014

TNT - Realized Fantasies (1992)

Tracklist:
1. Downhill Racer
2. Hard To Say Goodbye
3. Mother Warned Me
4. Lionheart
5. Rain
6. Purple Mountain's Majesty
7. Rock 'n' Roll Away
8. Easy Street
9. All You Need
10. Indian Summer

Dalla Svezia gli Europe, dalla Norvegia i TNT.
Queste le due stelle più luminose della scena hard scandinava degli anni 80, quando gli Hardcore Superstar e i loro amichetti non sapevano ancora cosa fossero i tatuaggi ed avevano ancora capelli normali. E non sto parlando di cavalle bionde alla Brigitte Nielsen.

E perchè il 90 percento dei rockers italiani, non avrò mai sentito nemmeno nominare questi TNT? La risposta è presto data: non hanno mai composto "The Final Countdown". Strano come per un particolare così minimo un gruppo debba essere destinato alla gloria eterna o allo scatolone dei dischi in offerta a 3,99. E pensare che Joey Tempest (che in Italiano vuol dire "tempesta") e soci hanno da anni praticamente rinnegato la gallinella dalle uova d'oro, che ha sistemato loro, i figli e i nipoti a venire, suonando quei 3-4 pezzi durante i concerti senza nascondere affatto il loro atteggiamento alla "leviamocela dalle palle e poi vai di pezzi nuovi".

Quindi diciamo che i TNT non hanno potuto godere appieno della fama da supergruppo che hanno avuto altre realtà, ma possiamo ipotizzare senza paura di sbagliare che si siano levati lo stesso molte soddisfazioni: primi posti nelle classifiche norvegesi e non solo, e svariati tour mondiali a fianco di mostri sacri come Stryper, Judas Priest e Great White, nonchè alcune date, manco a dirlo, in Giappone, dove sono osannati alla grande.

Come tutti ormai sapranno, nei primi anni 90 il grunge imperversava, i camperos erano stati messi negli armadi per far spazio alle Converse ed una generazione di festaioli eroinomani aveva improvvisamente scoperto la depressione trasformandosi in un'altra Generazione X di festaioli eroinomani, però molto più tristi ed arrabbiati. Metal e Hard Rock erano stati lasciati a se stessi con scarso supporto, se non quello di pochi irriducibili.
Il passo dei TNT in questo contesto è stato proprio questo "Realized Fantasies", quinto album di una carriera più che trentennale, che mette da parte gli aspetti più smaccatamente legati alla decade precedente, buttandosi in un hard rock più fresco che strizza fortemente l'occhio ad una nascente scena metal improntata in maniera sempre maggiore sulla melodia. Il taglio netto con il passato era stato già dato qualche anno prima dagli Extreme, maestri nel proiettare nella nuova decade gli ultimi ruggiti dei fenomenali anni 80, per poi lasciarsi (purtroppo) andare ad incursioni nel post-grunge con le elaborazioni un po' eccessive di  "III Sides to Every Story", uscito nel 1992. Stesso anno dell'album oggetto di questa recensione che, per fortuna, rimane saldamente ancorato alle proprie radici.

Sin dalle prime note risulta evidente una vena progressive abbastanza rara per il genere, ben mimetizzata tra gli schitarreggi più prettamente cotonati, ma la vera sorpresa arriva nel momento in cui l'americanissimo Tony Harnell apre la bocca ed inizia ad urlare nel microfono. Raramente ho sentito tanta potenza vocale, soprattutto a livello di registrazioni in studio. La sua impressionante estensione vocale, privilegiata ovviamente nel registro medio-alto, viene corroborata da numerosi arrangiamenti vocali in multitraccia, andando ad ispessire l'impatto soprattutto dei cori, e a dare una varietà che a molte band è mancata proprio a questo livello. L'unico appunto che si potrebbe fare al cantante, essendo cattivi, è quello di essere forse eccessivamente camaleontico, ricordando vagamente di volta in volta innumerevoli altri interpreti, perdendo quindi un po' in personalità: in ordine sparso si possono sentire echi non voluti di Mike Tramp, RJ Dio, James Labrie (sentite il bridge di "Rain" e rendetevi conto che "Images and Words" avrebbe potuto essere un album ancora migliore), Kip Winger, Charlie Huhn e Joe Elliott, per citare solo quelli che mi sovvengono a memoria. C'è questa sensazione che permea l'intero ascolto del disco e che ti fa pensare in continuazione "Oddio, ora chi mi ricorda?". Tutto questo però non deve assolutamente significare che sia un cantante anonimo, piuttosto che racchiuda in sè il meglio di tanti altri grandi cantanti, e ciò non è mai male.

Anche il guitar-work dello stregone Ronni Le Tekrø, dallo stile originale e percussivo, risente di questa sensazione di déjà vu, come se l'album fosse una gigantesca caccia al tesoro in cui si debbano cogliere decine e decine di citazioni. Questo ovviamente non deve per forza rappresentare un giudizio negativo, almeno per me che cerco nella musica una passione sanguigna, e mi interesso molto poco dell'originalità a tutti i costi. Per quanto encomiabile possa essere il lavoro ritmico, devo dire di non aver apprezzato particolarmente l'aspetto solista, che dà un po' l'impressione di essere lasciato a se stesso, nonostante molti fill estremamente interessanti, complice un uso smodato della tecnica del carillon infernale di Bensoniana memoria che pare messo, a volte, solo come riempitivo forzato di quelle 4-8 battute in cui non si ha idea di cosa poterci fare sopra.

Dato che a qualcuno potrebbe interessare, alla batteria troviamo Mr. Prezzemolo Macaluso, alla prima ed unica collaborazione con il combo norvegese, che marchia a fuoco l'album con la sua caratteristica botta e con il suo estro che lo porta ogni tanto a starsene ben tranquillo, e ogni tanto ad uscirsene con sboronate di doppia cassa che vi faranno sorridere al mondo.

Tra molti alti ("Downhill Racer", "Hard To Say Goodbye", "Mother Warned Me", la già citata "Rain" e la doppietta finale "All You Need" e "Indian Summer") ed alcuni bassi (meglio parlare di pezzi un po' anonimi, dai), il disco scorre alla grande rendendo un'opzione automatica l'ascolto in loop, lasciando però la sensazione amara che, per alcuni brani, si sarebbe potuto fare di più, dato che le potenzialità per creare 10 hit su 10 c'erano eccome.

venerdì 26 settembre 2014

Ahab - The Call Of The Wretched Sea (2006)

Tracklist:
01 Below The Sun
02. The Pacific
03. Old Thunder
04. Of The Monstrous Pictures Of Whales
05. The Sermon
06. The Hunt
07. Ahab's Oath

Quesa volta partiamo da una foto.
Il primo documento fotografico che immortala gli Ahab è datato 2009, anno in cui la band aveva già due album all'attivo: uno appena uscito, intitolato "The Divinity Of Oceans", ed un altro, "The Call Of The Wretched Sea", pubblicato 3 anni prima, che è quello di cui parleremo in questa recensione.

Restando fedeli alla loro ossessione per l'Oceano, evidente in ogni aspetto della band, dal nome, ai titoli dei dischi, alle copertine, alle sonorità, ai testi, i quattro si fanno immortalare completamente zuppi, inseriti tramite un po' di Photoshop nel mezzo di una desolazione fatta di nuvoloni neri e di pioggia. Le stesse nuvole che terrorizzano l'equipaggio del Pequod nella maggior opera di Melville e che costringono Gordon Pym a resistere per giorni e giorni legato con delle funi pur di non soccombere alla tempesta che investe il Grampus con la forza di un'Apocalisse nell'unico romanzo di Edgar Allan Poe. Due opere che hanno influenzato alla grande il quartetto di Heidelberg , tanto da realizzarne due concept: Melville e la sua Balena Bianca in questo album di debutto ed in misura minore nel successivo, al cui centro vi è la storia della baleniera Essex, che è servita da ispirazione per Moby Dick, e Gordon Pym nel terzo, e ad oggi ultimo, "The Giant".
 

L'immagine del gruppo completamente isolato dal mondo, inerme e spaventoso nonostante l'assoluta mancanza di pose tamarre alla Behemoth, descrive alla perfezione la musica di questo dischetto che stiamo prendendo in esame, mentre si discosta parecchio, almeno a livello visivo, dai due lavori successivi, dalle componenti sempre meno funeral e più orientati ad una sperimentazione nelle atmosfere che, immagino, complice anche il progressivo abbandono del growl, strizzerà prima o poi l'occhiolino anche ad una certa psichedelia figlia degli anni '70.

Dopo i 30 secondi di intro di "Below The Sun", gli Ahab ci prendono a braccetto sulla loro scialuppa lasciata alla deriva in mezzo all'Oceano sconfinato. Le chitarre, opportunamente abbassate, ci imprigionano in un vortice di correnti che non lasciano scampo, e che inesorabilmente, prima o poi, ci cattureranno nel loro freddo abbraccio. In alto, sopra le nuvole cariche di pioggia, dove il sole splende, invisibile alla vista dei mortali, si stagliano tastiere e melodie soliste di una semplicità imbarazzante, usate qui con parsimonia, ma sempre in grado di permetterci di trarre un bel sospiro e di immergerci nuovamente in un'immensità claustrofobica fatta di distorsioni, riverberi e delay settati con esperienza a formare un colossale wall of sound che nemmeno Phil Spector sarebbe stato capace di immaginare.

A farla da padrone sono i growl catacombali del cantante-chitarrista-leader Daniel Droste, che sembrano provenire direttamente da abissi sconfinati, al di fuori dello spazio e del tempo. Come se si trattasse degli ultimi echi della caduta di Atlantide.

Questa massa nera, informe, pesantissima, è sorretta dalla batteria puntuale di Cornelius Althammer, qui presente in veste di turnista, ma poi fortunatamente entrato in pianta stabile nel gruppo, bravissimo nel distinguersi dalla massa di batteristi doom capaci solo di pestare con violenza su tempi ultradilatati, riuscendo ad essere fantasioso tramite l'inserimento di numerosi fill, soprattutto sui piatti, al limite del jazz, senza perdere un briciolo della pesantezza che il funeral richiede.

Un disco difficile da ascoltare nella sua interezza, complice sia la durata (7 pezzi per settanta minuti), sia per la sensazione di oppressione che vi attanaglierà dalla prima all'ultima nota, ma di cui difficilmente, una volta che il sale vi sarà entrato dentro, ed il vento avrà bruciato la vostra pelle, potrete fare a meno. Un viaggio interiore, al pari di un monolite come "Dopesmoker".

Anche Gregory Peck vi consiglia di ascoltare gli Ahab


martedì 16 settembre 2014

Ace Frehley - Space Invader (2014)

 Tracklist:
1. Space Invader
2. Gimme A Feelin'
3.  I Wanna Hold You
4. Change
5. Toys
6. Immortal Pleasure
7. Inside The Vortex
8. What Every Girl Wants
9. Past The Milky Way
10. Reckless
11. The Joker
12. Starship

Con la pubblicazione di questo nuovo "Space Invader" il buon Ace, almeno stando alle miriadi di comunicati, interviste e interventi nei programmi più disparati di qualsiasi mezzo di informazione, sembrerebbe aver trovato un pretesto per levarsi numerosi sassolini (sampietrini) dagli zoccoli di carta stagnola alla moda di "Amore Tossico". Critiche feroci al buon vecchio Tommy Thayer, "colpevole" di avere addosso il makeup ed il costume da Spaceman, come se fosse una sua decisione; di aver sponsorizzato la messa in vendita di una Les Paul che porta il suo nome e che praticamente riprende in tutto e per tutto il famoso modello "Budokan"; di copiargli gli assoli (e grazie al cazzo) e fondamentalmente di star godendosi tutto quello che Frehley ha sputtanato per ben due volte nel corso degli ormai 40 anni di carriera dei Kiss. Dovendo pesare attentamente le parole nelle critiche all'acqua di rose contro la premiata ditta Eisen-Weitz (Paul Stanley e Gene Simmons), probabilmente a cause di decine di avvocati sguinzagliati da tutte le parti in causa che non vedono l'ora di trasformare una qualsiasi esternazione sopra le righe in moneta sonante (quelli dei Kiss) o almeno di provarci (quelli di Frehley), il bersaglio ideale è diventato il povero Tommy, a tutti gli effetti solamente un impiegato al soldo dell'azienda multimilionaria a cui Ace ha venduto i diritti sul makeup per comprarsi qualche boccia di gin negli anni più bui della sua vita.
Thayer l'usurpatore ha preso il mio posto anche sui
depliant dei costumi di Carnevale. Il Maledetto.


Ma stiamo divagando. Dicevamo che l'uscita del disco sembra quasi un pretesto per far parlare di sè, ma bisogna ammettere l'evidenza già dopo il primo ascolto: "Space Invader" è un album che da solo vale più di tutta la discografia post-reunion dei Kiss: ma tre discacci veramente brutti, salvando giusto qualche pezzo da "Psycho Circus", tra cui l'omonimo e "Into The Void" scritta, pensa un po', proprio da Frehley, e che rappresenta il suo unico contributo ad un album che porta il suo nome ma per il quale non è mai stato preso in considerazione per partecipare alle registrazioni, così come il reietto Peter Criss, ma questa è un'altra storia.

Mi rendo conto che paragonarlo, in fin dei conti, a tre dischi nemmeno mediocri non gli rende giustizia. Iniziamo quindi a dire le cose come stanno e ad affermare che "Space Invader" è un signor album, che risente poco o niente della ruggine che inevitabilmente si è depositata sulle mani del chitarrista, data la scarsa attività degli ultimi anni.

Le trame chitarristiche di colui che, insieme a Tony Iommi, ha ispirato decine e decine di migliaia di chitarristi della scena hard/heavy mondiale, vengono tessute senza sosta su di una matrice fondamentalmente figlia del suo retaggio rock-blues anni '70 e di qualche incursione negli eighties grazie alla breve parentesi dei Frehley's Comet.
La voce, onestamente sguaiata, stonata, distrutta da eccessi di qualsiasi tipo, non è mai, contro ogni aspettativa, fuori luogo. Va apprezzato sicuramente l'impegno profuso nell'effettistica spaziale del cantato e nella ricerca di una certa impostazione vocale che non corrisponde al suo normale tono di conversazione, dato che Ace di secondo lavoro fa il pupazzo da ventriloquo, come dimostrato dal filmato che vi propongo, in cui un anonimo burattinaio fa scaccolare in continuazione il nostro chitarrista preferito che, vi ricordo, non è Tommy Thayer.


Saltando le descrizioni dei vari pezzi, che credo non interessino a nessuno, possiamo dire che, a parte la massiccia title-track, che da sola vale il disco e una promozione a pieni voti, si passa da episodi gradevoli ad altri veramente validi, come "Gimme A Feelin'", che ricorda vagamente "Strutter" e sarebbe andata a nozze con una dose da cavallo di cowbell; "Change", manifesto di una vitalità rinnovata e ripulita alla grande, la LedZeppeliana "Inside The Vortex" o la bella strumentale "Starship", il pezzo che sicuramente non ti aspetti da un ex-Kiss.

Se già nel '78 lo schivo Ace ha sbaragliato la concorrenza (allora più o meno amichevole) dei suoi compagni di band pubblicando quello che viene universalmente riconosciuto come il migliore dei 4 dischi solisti degli altrettanti componenti dei Kiss, e provocando le prime tensioni nelle due primedonne incipriate, nel 2014, dopo le diatribe sulla R'n'R Hall Of Fame e le dichiarazioni al veleno che sono volate un po' da tutte le parti, Ace mette a tacere tutti con un bel disco sanguigno che sicuramente non può essere considerato un capolavoro ma che, in un periodo di stagnazione di idee dove si tende a rivangare continuamente il passato, suona come una boccata di aria fresca, grazie anche ad una produzione che ben bilancia suoni retrò, potenza e pulizia ed una voglia di andare oltre i propri limiti provando a rinnovarsi quel tanto che basta a non risultare banale. Ace, dopo aver abbandonato i Kiss  si è imbarcato su di un'astronave ed è partito per un lungo viaggio, e dopo aver fluttuato per misteriosi mari temporali cambiando mille volte aspetto, si è ripresentato ai giorni nostri. E noi gli diamo finalmente il bentornato.

domenica 27 luglio 2014

Carcharodon - Roachstomper (2013)

Tracklist:
1. Stoneface Legacy
2. Pig Squeal Nation
3. Adolf Yeti
4. Beaumont, TX
5. Jumbo Squid
6. Marilyn Monroid
7. Chupacobra
8. Burial In Whiskey Waves
9. Alaska Pipeline
10 Voodoo Autopsy
11. The Sky Has No Limits

Mentre il comandante Schettino, tra una data con gli Hideous Divinity e un processo, se la spassa di bianco vestito tra festini Vip tutti lampade e cocaina, la sua Costa Concordia procede nel lento, inesorabile, ultimo viaggio verso Genova, dove verrà demolita da quattro rozzissimi frequentatori delle peggiori bettole della Liguria a forza di riffoni "grossi come montagne", di sguaiatissimi cori e di growl puzzolenti di alcool semi-digerito.

I quattro in questione sono i Carcharodon, band che, purtroppo, in Italia non ha ancora il nutrito seguito che meriterebbe, ma che può permettersi lunghe tourneè negli Stati Uniti (dove, per certe sonorità, hanno l'occhio molto più lungo del nostro), e dove vengono invitati tranquillamente, come vecchi amici, alle prove di gente come i Crowbar, gruppo sicuramente presente nello sterminato panorama ispirativo dei quattro Alassini.

Che la scena doom, sludge, stoner et similia Italiana goda di ottima salute e non abbia assolutamente nulla da invidiare a quella di zone con una tradizione ben più radicata nel genere non è sicuramente una novità, ed il fatto, ad esempio, che il concerto dei Pagan Altar, l'anno scorso, sia stato letteralmente oscurato dalle esibizioni magistrali dei supporter Doomraiser e Caronte, parla chiaro. Mentre da noi tutti questi ragazzi sono costretti ad organizzarsi da soli i concerti, magari invitandosi a vicenda, o a doversi ridurre al (dignitosissimo, per carità) ruolo di supporter, all'estero possono permettersi di spadroneggiare a testa altissima tra i grandi headliner dei festival di genere.

Insomma, come suonano questi Carchardon? Suonano Americanissimi. Suonano come suonerebbe Elvis se girovagasse per gli Stati del Sud dopo essere risorto dalla tomba, ovviamente vestito da Gallo Cedrone, trascinando i suoi arti putrefatti da Mephis alla Lousiana, passando per il Texas. La bravura dei nostri sta proprio nel rifarsi ad un certo immaginario, sicuramente non appartenente alla nostra tradizione, senza risultare assolutamente fuori posto, e senza dare alcuna impressione di scimmiottamento all'Italiana. I Carcharodon sono perfettamente credibili nella loro parte di vecchi redneck con gli stivali pieni di fango, che passano le serate su di un divano semidistrutto nel patio a masticare tabacco e a bere Whisky distillato illegalmente, andando a caccia di alligatori per passare il tempo.
 L'autodefinizione "Macho-Metal" che i ragazzi si danno è un mix infernale, come già accennato, di sludge con la panza e doom molto maschio, di un death'n'roll fortemente debitore della scuola Entombed e di un r'n'r con la barba, con decise influenze che vanno dal country, al rockabilly, al blues e più in generale a tutta la più smaccata tradizione sudista.

Tutto, in questo "Roachstomper", è curato sin nel minimo dettaglio. L'iniziale impressione di caos dei primi ascolti lascerà ben presto il posto ad una sensazione profonda, una voglia di sfasciarsi al suono dei chitarroni distortissimi della coppia di asce Max e Boggio, fondatore del gruppo insieme al fratello Pixo, basso e voce. A chiudere la formazione, dietro le pelli, c'è Zack, a dare un po' di ordine con un drumming preciso, potente e scarno, ma molto poco scontato. Ogni fase di questo disco scorre con una fluidità pazzesca, pur essendo perfettamente imprevedibile. Anche solo nell'opener "Stoneface Legacy" c'è tanta di quella carne al fuoco che viene da chiedersi come i ragazzi siano riusciti a rendere il tutto così organico e a dare ad ogni pezzo un tiro ed un suono inconfondibili. Enormi riff super dilatati si alternano con piacere a sfuriate dal tiro micidiale, ad arpeggi, ad assoli melodici di gran gusto, ad inserti di slide guitar, mentre la voce passa senza soluzione di continuità da un growl imbastardito ad uno molto più profondo e cavernoso a cori armonizzati e chi più ne ha più ne metta.

Ci si lascia volentieri trasportare nelle atmosfere da live infuocato con "Pig Squeal Nation", da cantare a squarciagola con una bottiglia in mano, preferibilmente in locali pieni zeppi di gente sudatissima, con la successiva "Adolf Yeti", nata apposta per scatenare un putiferio sopra e sotto il palco, o su "jumbo Squid" tutta da saltare con un cappello in testa. "Beaumont, TX", dopo un'intro lenta ed evocativa, lascia spazio ad uno dei migliori riff del lotto: lungo, lento, pesantissimo, eccessivo in tutto e per questo vincente. Le influenze country si trovano seminate lungo tutto il disco, siano assoli, riff o semplici fill, ma vengono evidenziate alla grande in "Marylin Monroid", inno alle pin-up amanti del sesso estremo, in cui riff pesanti e veloci si alternano alla grande a galoppate in finger picking che chiamano a gran voce la presenza di un banjo. "Burial In Whiskey Waves" , dopo una lunga sfuriata inziale, acquista un sapore da colonna sonora, grazie ad un inaspettato intermezzo di tastiere, chitarre armonizzate e cori, mentre la conclusiva "The Sky Has No Limits", estremamente varia, è infarcita delle più svariate idee, tra psichedelia alla Black Sabbath prima maniera, il rock di Chuck Berry, lo sludge dei Down, e quant'altro la fervida immaginazione dei 4 sia riuscita a partorire.

Alcuni passaggi di questo "Roachstomper" potrebbero essere usciti tranquillamente da un lavoro dei Mastodon, senza (per fortuna) la componente troppo caotica che da sempre caratterizza la band di Troy Sanders e soci, ma con un'organizzazione che raramente si trova nei lavori moderni, dove si ha troppo spesso la sensazione di avere semplicemente dei riff incollati tra di loro.

Un disco sanguigno, viscerale, vario, incontenibile, che porta i nostri molti gradini più in alto rispetto al debutto "Macho Metal", ormai del 2008. Questo "Roachstomper" forgia un sound sfaccettato, caleidoscopico, riconducibile a mille e più gruppi, generi e stili diversi, o più semplicemente riconducibile direttamente a quella che per quanto mi riguarda è attualmente tra le migliori, se non la migliore realtà italiana: i Carcharodon.

giovedì 24 luglio 2014

Count Raven - Mammons War (2009)


Tracklist:
1. The Poltergeist
2. Scream
3. Nashira
4. The Entity
5. Mammons War
6. A Lifetime
7. To Kill A Child
8. To Love, Wherever You Are
9. Magic Is...
10. Seven Days
11. Increasing Deserts

Immaginate i Black Sabbath dell'era Ozzy (non quelli di adesso: quelli ben drogati), pompatene i riff con dosi massicce di testosterone e mettete a cantare uno con la stessa voce del Madman, ma con un minimo di competenza musicale: ecco a voi i Count Raven.

Svedesi di Stoccolma, attivi dagli ultimi anni 80 e con all'attivo solamente 5 album che costituiscono una delle migliori discografie dell'intera scena Doom mondiale, sono passati fondamentalmente attraverso 3 fasi più o meno distinte: la prima va dal cambio nome (da Stormwarning a Count Raven) all'abbandono del cantante di allora Christian Linderson che, dopo la pubblicazione dell'omonimo "Storm Warning", agli svedesi preferisce una (breve) militanza nei Saint Vitus, con i quali ha pubblicato "C.O.D.", per poi vagabondare alcuni anni nell'ambiente doom ed approdare infine nei Lord Vicar in pianta più o meno stabile. La seconda "era" parte appunto con l'abbandono di Linderson, il cui posto dietro al microfono viene occupato dal chitarrista e mastermind Dan Fondelius, il quale plasma l'inconfondibile sound retro del gruppo. Di questo periodo fanno parte i tre dischi fondamentali "Destruction Of The Void" del '92, "High On Infinity" del '93 e "Messiah Of Confusion" del '96, incisi con la formazione storica: Fondelius alla chitarra e alla voce, Tommy Ericksson al basso e Christer Pettersson alla batteria. Dopo alcuni anni di tira e molla, tra reiterati scioglimenti e reunion, Fondelius dà il via alla terza era dei Count Raven, che consiste in una sorta di suo progetto solista, con poca o nessuna promozione dal vivo, ma con la pubblicazione di questo "Mammons War" del 2009. Disco che si distingue nell'ormai pienissimo calderone Doom per una sua caratteristica tanto banale quando speciale: l'avere veramente qualcosa da dire.

I riff granitici alla Black Sabbath sono onnipresenti come da manuale, ma a questi si aggiungono con discrezione tastiere e sintetizzatori in modo per niente invasivo,  a costituire un perfetto complemento agli strumenti tradizionali,  oltre ad inserti melodici, chitarre acustiche e momenti più atmosferici.

Basta ascoltare i trascinanti riff dell'opener "The Poltergeist", così come la successiva "Scream", litania di raro pregio in cui il lider maximo della band offre una prova maiuscola dietro al microfono, o i riff arabeggianti di "Nashira" con il emozionante assolo seriamente degno di nota, o le atmosfere quasi sludge di "The Entity", per venire catapultati all'istante nel periodo di "Vol. 4" e dintorni, con la differenza che durante la registrazione di questo "Mammons War", più che di cocaina, avranno abusato solamente di Voltaren.

La prima sorpresa ci arriva con la title track, essenzialmente un inserto di tastiere, synth e cori a far da tappeto ad una lamentosissima predica super-effettata che ricorda molto da vicino il testo di "War Pigs". Per quanto mi riguarda un gioiellino di rara fattura.

Il resto dell'album scorre tra composizioni più lunghe ed articolate, stranamente inserite in quello che sarabbe il B-side dell'album, ma che non fanno calare di un millimetro la qualità globale dell'opera, grazie sempre e soprattutto alla prova magistrale di Fondelius, sia al microfono che, alle chitarre, con le quali riesce a rendere particolare anche un riff uguale ad un altro ascoltato 30 secondi prima.

Andando ad analizzare formalmente l'album, si dovrebbe parlare di un disco perfettamente doom, ben suonato, arrangiato e prodotto, ma che fondamentalmente non agiunge nulla di nuovo a quanto già fatto negli anni. Questa parvenza di normalità viene però smentita dai suddetti più melodici e riflessivi, strada che, ad onor del vero, è stata già battuta dai Padri con "Changes": nella fattispecie la già citata "Mammons War", la gelida ed appassionata "To Love, Wherever You Are", stupenda dichiarazione d'amore modulata su di un arpeggio formato da sole 4, efficacissime note, e l'eterea "Increasing Deserts", posta a chiudere il disco, che costituisce, per ora, il sigillo ad un testamento musicale che difficilmente verrà raccolto negli anni a venire. Queste tracce sono il vero valore aggiunto di un disco che vale di per sè già parecchio, e che riesce ad imprimersi nell'ascoltatore con una forza inaudita.

I Count Raven non saranno il vostro ascolto quotidiano. Su questo potete giocarvi quello che vi pare. Ma ogni tanto vi troverete a rispolverarli, ed ogni volta sarà una nuova angosciante ma eccitante discesa in un Maelstrom sonoro.

lunedì 21 luglio 2014

Hammerfall - Bushido (2014)






Tracklist:
1. Bushido
2. The Way Of The Warrior

Ah, gli Hammerfall! Da gruppo di punta durante il boom del power metal negli anni 90 con i primi due album, da band alla quale mancava pochissimo per diventare di diritto gli eredi degli Accept, da potenziale nuovo headliner dei futuri festival, quando le vecchie glorie saranno troppo vecchie per monopolizzare i palchi, a cosa? A pura macchietta di se stessi e di tutti i peggiori e più noiosi stereotipi del "learn how to play metal" su Youtube.

Nonostante il responso di pubblico e di vendite, che hanno sparato "Threshold", nel 2006, direttamente al primo posto della classifica svedese, siano stati effettivamente notevoli; nonostante i Main Stage dei vari Wacken e compagnia bella abbiano iniziato ad essere calcati dai cinque di Gothenburg in ore sempre più tarde e vicine al vero e proprio main event; nonostante la Nuclear Blast spenda da anni soldi su soldi per promozioni stellari, concerti in immensi parchi naturali (ah, se posso dirla tutta, il live Dvd "Gates Of Dalhalla" è di una noia mortale proprio per il posto, con il pubblico forzatamente seduto a 50 metri dalla band ed un'impressione di stasi generale che fortunatamente non è presente nelle normali esibizioni del gruppo che, anzi, dal vivo tende ad essere molto godibile e coinvolgente); insomma nonostante sembrino oggettivamente lanciatissimi e sempre in procinto di fare il grande botto, quello che ti catapulta nell'Olimpo, ho sempre avuto l'impressione che negli ultimi 10 anni gli Hammerfall si siano abituati all'idea del "vorrei ma non posso".

Dopo l'uscita di "Crimson Thunder", gran disco di puro heavy metal come non si sentiva da tempo, Joacim Cans e compagni avevano la strada spianata di fronte: potevano continuare a scrivere grandi album ed entrare nella leggenda o adagiarsi sugli allori e pubblicare album monotoni e ripetitivi per poter garantire un'uscita ogni 2-3 anni, tempi già troppo lunghi per una major come la Nuke, la cui attività prediletta sembra essere quella di spremere i propri gruppi più a fondo possibile per alcuni anni a ritmo di album-tour-album-tour per poi dare il benservito nel momento esatto in cui l'attenzione del pubblico sembri rivolta altrove. Purtroppo hanno scelto la seconda via, godendo peraltro dei favori della stessa Nuclear Blast, che li supporta ormai da quasi vent'anni.

Data l'oggettiva ma ovviamente taciuta scarsità di idee degli ultimi dieci anni, Oscar Dronjak (principale se non unico compositore del gruppo) e compagni hanno deciso di prendersi un abbondante anno sabbatico per ricaricare le pile. In questo periodo penso ci siano state parecchie riunioni con gli esperti di marketing dell'azienda che avranno fatto notare la qualità discendente delle varie pubblicazioni. Come si fa in un colpo solo a riconquistare fans, attenzione della stampa, credibilità (che, ad onor del vero, non è mai mancata), e soprattutto i soldi del pubblico, compresi quelli che hanno mal digerito la monotonia dei vari "Infected", "No Sacrifice, No Victory" e dello stesso "Threshold"?

Si telefona a Fredrik Nordstrom, produttore, dei primi due album della band, e poi ad Andreas Marshall, disegnatore ormai poco considerato, ma che è stato per gli anni 90 l'equivalente di un Derek Riggs per gli 80s, o di un Ed Repka per la scena Thrash. Basti sapere, a quelli che ancora non lo conoscono, che qualsiasi uscita di un qualche valore della scena Tedesca-Scandinava degli anni 90 porta la sua firma. Per citare qualcuno dei suoi (capo)lavori: "Imaginations From The Other Side" e "Nightfall In Middle Earth" dei Blind Guardian, "the Jester Race", Colony" e "Whoracle" degli In Flames, più tantissimi altri tra cui Mercyful Fate, Destruction, Dimmu Borgir, Rage, Running Wild, Grave Digger e chi più ne ha più ne metta. Lo si chiama e gli si propone un bell'assegno per una copertina-revival che si rifaccia all'artwork dei primi due album della band, disegnati appunto dallo stesso Marshall che, oltre a plasmare il templare che sarebbe diventato poi la mascotte del gruppo, riporta l'occhio e la mente del fruitore a quel periodo della seconda metà degli anni 90, in cui o ascoltavi power e ti mettevi la camicia bianca modello Louis XV o venivi estromesso da qualsiasi gruppo di metallari sulla faccia della terra.

Artwork e produzione che rimandano ai primi, grandi lavori del gruppo, vena creativa fresca e rinnovata. Qual è il risultato?

"Bushido" è una merda. Scelto come singolo apripista per l'imminente "(r)Evolution", titolo dall'originalità discutibile, pare essere, almeno stando alle interviste promozionali, l'unico pezzo che ha messo tutti d'accordo nella scelta del singolo. A sentire Dronjak perchè "la qualità di ogni canzone è talmente alta che avrebbero potuto essere tutte dei potenziali singoli". Visto che non stiamo parlando nè dei Def Leppard di "Hysteria", nè di Michael Jackson di "Thriller", ho paura che sia semplicemente, come spesso accade, il pezzo migliore dell'album, o almeno il meno peggio.

Songwriting stanco, accordi canonici, ritmiche da manuale ed un chorus dimenticabile. Per me "Bushido" è tutto questo. E i commenti su facebook di gente che afferma di averlo sentito venti volte di fila con la pelle d'oca non fanno altro che regalarmi un sorriso. A completare l'EP, invero molto, troppo scarno, una versione remixata dallo stesso Nordstrom di "The Way Of The Warrior", pezzo tratto da "Renegade" (disco in cui fanno bella mostra molti pezzi di altissima qualità, tra i quali purtroppo questo è assente) che aggiunge poco o nulla al risultato finale. E Fai disegnare a Marshall pure questa di copertina no? Tra l'altro stiamo parlando di un templare vestito da Samurai, non so se mi spiego.

Oscar, non ti basta Marshall, devi tornare a farti moro e a vestirti da modello BDSM. Magari ne gioverebbe pure la musica.

domenica 20 luglio 2014

Il Black Album e la sindrome della Merda



Lo ammetto, non mi sono mai piaciuti i Mastodon nè mi è mai interessato approfondire la loro conoscenza. Li ho visti un paio di volte distrattamente dal vivo nell'attesa di altri concerti e li ho sempre trovati troppo confusionari per i miei gusti. Non che non mi piaccia la confusione musicale, ma semplicemente non trovo particolare interesse nel non riconoscere i vari riff delle canzoni. Questo almeno nel metal, ovviamente.

La mia attenzione è stata un attimo stimolata quando in una recensione dell'ultimo lavoro dei suddetti Mastodon, intitolato "Once More 'Round The Sun" ho letto testuali parole: "Con questo disco i Mastodon sono diventati una band di grande rock americano come potrebbero essere i Lynyrd Skynyrd o gli ZZ Top".

Premesso che sono parole forse un tantino altisonanti, e che non mi sembra di ricordare che lo stile dei due gruppi sopra citati sia minimamente paragonabile a quello dei Mastodon, sono rimasto stupito da molti commenti all'album, provenienti anche da gente che, per propria ammissione, ha seguito tutte le uscite della band, e che bollava il disco come una merda perchè hard rock - pop, perchè roba poppettara, una manciata di riffacci rock-stonereggianti (già qui si va più sul tecnico e ci posso stare), MastoPop, oltre ovviamente ad accusarli di essersi venduti per una manciata di passaggi in radio.



Io ora non so che radio ascoltino i suddetti commentatori, visto che a quanto dicono dovrebbero passare i Mastodon in una programmazione puramente pop-rock, nè il reale motivo per cui gli si debba dare dei venduti quando il disco, benchè sia strutturalmente più semplice rispetto agli altri lavori del gruppo, sia molto poco easy-listening, e pieno della confusione sonora di cui si parlava prima, solo un po' piùorganizata in favore della melodia e non dell'apocalisse.

Se non sbaglio c'è stato almeno un altro gruppo che ha vissuto una situazione del genere, e a distanza di venticinque anni c'è ancora chi dibatte sul fatto che il Black Album sia o meno un disco metal, se i Metallica abbiano pubblicato un disco del genere solo per soldi, se "Nothing Else Matters" sia solo un lento da liceali o una gran ballad scritta da persone insospettabili.

Io sono uno di quei tanti che considerano i Metallica fino al 1986. Già "...And Justice For All" mi risulta molto indigesto, e sono legato ad un certo tipo di thrash metal che già con l'ingresso di Newsted aveva iniziato ad essere molto meno presente nelle canzoni. Non considero il Black Album un disco metal, ma dobbiamo per forza dire che è merda?



Arriva un certo momento in cui la qualità prescinde dallo stile musicale. Non ci dovrebbero essere più diatribe sul "è metal, non è metal" o sul "si sono venduti o si sono ammorbiditi?", ma semplicemente sulla reale qualità oggettiva del prodotto. (Purtroppo) ormai non siamo più negli anni 80, quando chi ascoltava thrash passava l'intera giornata a sentire demo dei Kreator in cassetta o ad andare in moto vestito di cuoio se era più dedito all'Heavy. Ormai chiunque può ascoltare tutto e subito, con un enorme ampliamento della sfera degli interessi musicali di ognuno. Allo stesso modo c'è sempre più gente che ascolta Metal ma si schifa a definirsi Metallaro, come se fosse un'onta ignobile. Sono quindi portato ad immaginare che l'interesse di un metallaro-nonmetallaro sia rivolto ANCHE almeno alla scena Rock, e non capisco quindi il perchè reputare "Merda" un disco solo perchè suona più rock che metal, o più semplicemente perchè si è solo allontanato da quello che ti saresti aspettato da un gruppo.

Intanto, in tutto questo, Metallica e Mastodon se la ridono alla grande e pensano a godersi i propri soldi in qualche villona immersi completamente nelle tette, mentre noi siamo a farci le nostre belle pippette mentali.

James Hetfield quando era Vinnie Paul

Mercyful Fate - 9 (1999)






Tracklist:
1. Last Rites
2. Church Of Saint Anne
3. Sold My Soul
4. House On The Hill
5. Burn In Hell
6. The Grave
7. Insane
8. Kiss the Demon
9. Buried Alive
10. 9

Il canto del cigno dei Leggendari Mercyful fate è una bomba clamorosa. Passata inspiegabilmente e troppo in sordina. Mai negli anni ho sentito citare questo album in un discorso riguardante la band del Re Diamante. Citazioni che di solito si fermano ai soliti "Melissa" e "Don't Break The Oath": album meravigliosi che hanno plasmato un genere unico e considerate, a ragione, tra le pietre miliare dell'heavy metal inteso in senso ampio. Purtroppo ci si dimentica che i Danesi non sono morti nell'84 ma, tra scioglimenti, reunion, marchette per rescindere contratti discografici et similia, hanno continuato a pubblicare dischi fino al 1999, anno in cui vide la luce l'oggetto di questa recensione.

La band si presenta con questo album nella stessa formazione del precedente "Dead Again", uscito un anno prima, orfana già da qualche tempo  della presenza di Michael Denner, sostituito alla sei corde da Mike Wead, svedese della cerchia di Leif Edling e compagni, quindi sinonimo di garanzia assoluta, che peralto aveva già collaborato per alcuni anni con il Re per quanto riguarda la sua carriera solista. Formazione già consolidata, quindi, che vede, oltre ai già citati Wead e King Diamond, il buon Hank Shermann, altro fondatore del gruppo, insieme alle più recenti entrare Sharlee D'Angelo al basso (quando ancora bazzicava gruppi seri) e Bjarne T. Holm dietro le pelli.

La fase compositiva è stata lasciata interamente a Shermann e allo stesso King Diamond che, come per i suoi album solisti, tende a scrivere gran parte della musica oltre, ovviamente, ai testi, di cui è ed è sempre stato il padrone assoluto.

Sostanzialmente il sound generale dell'album non si discosta molto da quanto fatto negli ultimi anni, sia come struttura delle composizioni, basata su numerosissimi riff disposti in maniera mai scontata (caratteristica presente dagli albori della carriera della band), sia per quanto riguarda il "tiro" dell'album, sempre ben solito sia nei pezzi più veloci che nei mid-tempo, così come nelle sezioni che potremmo definire più, per modo di dire, melodiche. Chi ha ascoltato i vari "Dead Again" o "Into The Unknown" non dovrebbe avere particolari sorprese nemmeno per quanto riguarda il sound dell'album, parecchio ripulito rispetto agli inizi ma sempre molto heavy e potente.

Si parte alla grande con "Last Rites" che, dopo una breve intro srotola un tappeto di solida doppia cassa su cio vengono sciorinati i riff della coppia di chitarristi, magistralmente completati dall'inconfondibile stile vocale del Re (non devo spiegare che canta anche in falsetto, vero?) che ci racconta gli ultimi momenti di un uomo che rifiuta l'estrema unzione con grande e graditissima eresia. L'alternanza di parti veloci e rallentamenti sarà una costante di tutto il disco, e sarà impossibile avere quella sensazione sentita troppo spesso che un riff sia stato incollato ad un altro in maniera forzata: tutto scorre liscio come l'olio, o meglio come la pece. "Church Of Sain't Anne" è un mid-tempo cattivissimo ed ipnotico che costruisce l'atmosfera perfetta per una storia di corruzione veramente degna di nota, in cui a farla da padrona sono le evocazioni sulfuree del buon King Diamond, in grandissimo spolvero. "Sold My Soul" ipnotizza l'ascoltatore sin dai primi momenti per poi trasformarsi in un pezzo dal forte sapore teatrale. "House On The Hill" è sparata a mille, probabilmente il pezzo più veloce della loro intera discografia. "Burn In Hell" è una cavalcata heavy metal da manuale, incattivita da quel qualcosa in più che hanno i Mercyful Fate e che traspare da ogni singolo riff ed ogni singola nota. "The Grave" ci richiama all'immancabile appuntamento del SABBAto sera con l'apertura di parecchie fialette puzzolenti, notoriamente contenenti zolfo (dopotutto anche streghe, negromanti e satanisti vari dovranno pur arrangiarsi con ciò che trovano). "Insane" è un pezzo veloce, solido, diretto, sparato a mille sull'ascoltatore inerme. "Kiss The Demon", benchè non abbia nulla della psichedelia propriamente detta, sortisce lo stesso effetto sull'ascoltatore con le sue chitarre pulite super effettate che lasciano il posto a bei riffoni stoppati. Forse è il pezzo più insipido dell'intero album, per quanto possa essere insipido un pezzo dei Mercyful Fate, ovviamente. "Buried Alive", i cui testi potrebbero essere usciti direttamente dalla penna di Edgar Allan Poe tanto è chiara l'ispirazione. Questo è un caso palese di come la band sappia raccontare storie terrificanti dotate di una perfetta ed agghiacciante colonna sonora: uno dei momenti migliori dell'album. A chiudere il disco la title track, "9", unico pezzo scritto da Mike Wead che si discosta decisamente dallo stile della band puntando tutto sull'atmosfera diabolica ma che supera senza problemi la prova.

Insomma, se non conoscete i Mercyful Fate ascoltatelo, e andrete subito a scoprire l'intera discografia di uno dei miglior gruppi della storia dell'heavy metal, se non il migliore in assoluto. Se invece ne siete già appassionati, io vi consiglio di riprenderlo in mano e rendervi conto di cosa vuol dire essere delle leggende viventi.

venerdì 11 luglio 2014

Grave Digger - Return Of The Reaper (2014)


Tracklist:
  1. Return of the Reaper
  2. Hell Funeral
  3. War God
  4. Tattooed Rider
  5. Resurrection Day
  6. Season of the Witch
  7. Road Rage Killer
  8. Dia de los Muertos
  9. Satan's Host
  10. Grave Desecrator
  11. Death Smiles at All of Us
  12. Nothing to Believe

È molto difficile, se non impossibile, tornare ai livelli del passato. Benchè sia stato sbandierato ai 4 venti, con molto anticipo rispetto all'uscita dell'album e con un po' di arroganza, che codesto nuovo "Return Of The Reaper" avrebbe ripreso le atmosfere e lo stile della coppia "The Reaper" e "Heart Of Darkness" (veri e propri massi di granito, imperdibili per qualsiasi fan della band di Chris Boltendhal e soci). Questo nuovo lavoro ne riprende, per quanto mi riguarda, semplicemente il titolo.

Quando uscì "The Reaper" era il 1993 e lo speed-heavy metal tedesco era già stato inventato e perfezionato da tempo, e la qualità di uscite ad alto livello era impressionante: gli Accept avevano già pubblicato da anni i loro capolavori e se ne uscivano con "Objection Overruled", disco che segnava la riunione con il figliol prodigo Udo e sanciva praticamente la fine della prima grande era della band, da qualche anno tornata alla carica in gran spolvero con il buon Mark Tornillo che riesce nel quasi impossibile compito di non farci rimpiangere il nostro nano da giardino preferito; i Blind Guardian si preparavano a scrivere "Imaginations From The Other Side", che uscirà due anni più tardi e diventerà in breve il punto di riferimento (mai raggiunto) per tutti i gruppi dell'esplosione power-fantasy negli anni a seguire e gli Helloween vagavano in lidi più melodici con il discusso "Chameleon" mentre il fuoriuscito Kai Hansen umiliava Weikath con "Insanity And Genius" dei suoi Gamma Ray.

In questo fiorente contesto c'era anche una ulteriore realtà attiva dal 1980 che, con alcune validissime pubblicazioni alle spalle, aveva provato a cambiare nome e darsi ad un genere più commerciale ("qualcosa da classifica che suonasse come Bon Jovi") con il solo intento di diventare famosi, con risultati disastrosi per loro, e più che discreti per me: "Stronger Than Ever" dei Digger di commerciale non ha nulla, ma è semplicemente un tipico disco heavy tedesco degli anni '80 con qualche tastiera pacchiana e un po' più di melodia. Ed una copertina che definire ridicola sarebbe riduttivo.

Insomma, ritornati in carreggiata sotto il veccho monicker, e con la stessa formazione dell'ultimo fiasco, che comprendeva la presenza alla sei corde del buon Uwe Lulis, i nostri sfornano quella mazzata nei denti che risponde al titolo di "The Reaper". Mentre i primi album erano tutto sommato dei bei dischi di speed metal da cuoio, borchie, moto e birra (la fica i GD non sanno nemmeno cosa sia, specie dopo la foto di gruppo sul retro di "War Games" che vi consiglio di andare a cercare: è un gioiellino del trash) di cui è da apprezzare la sincerità estrema, con questo nuovo lavoro i Grave Digger entrano di prepotenza nell'Olimpo della scena heavy tedesca ed Europea. Composizioni dirette, veloci, solide e riff più o meno semplici ma coinvolgenti al massimo fanno da tappeto sonoro alla voce inconfondibile dello zio Chris senza mai perdere il tiro per un secondo: ascoltare "The Reaper" vuol dire ritrovarsi con il pugno alzato a fare headbanging anche in metropolitana.
L'EP "Symphony Of Death", uscito l'anno successivo, funziona come una macchina oliata alla perfezione (e ti credo, c'è Jorg Michael alla batteria), riprendendo lo stile di "The Reaper" e portandolo a livelli ancora superiori.
Il successivo "Heart Of Darkness" è dotato di composizioni leggermente rallentate ma dal felling oscuro ed ancora più rocciose.
Inutile raccontare del successo esplosivo con la trilogia medievale ("Tunes Of War", "Knights Of The Cross" ed "Excalibur"), in cui il gruppo trova la sua dimensione rendendo sempre più epiche le proprie composizioni, lavorando su dei concept storici e infarcendo i pezzi di cori perfetti in sede live.
Dopo "Excalibur" qualcosa si rompe nella macchina: Uwe Lulis se ne va dal gruppo, fonda i Rebellion e perde immediatamente tutta la sua creatività, impegnando le proprie forze per perdere una causa legale contro Boltendhal atta a poter mantenere per sè il monicker "Grave Digger" (che poi non è che ci volesse una sentenza del tribunale per capire che il gruppo l'ha fondato quell'altro e tu non devi rompere le palle).

Alla chitarra arriva Manni Schmidt, fuoriuscito anni prima dai Rage e coautore dei primi album del gruppo (quelli più sanguigni, precedenti alla svolta pseudo orchestrale), che dopo un paio di buone prove in studio, e figure misere dal vivo (almeno un assolo, UNO, potevi ricordartelo, brutto panzone), perde anch'egli la creatività e si adagia su una serie di composizioni fiacche, monotone, finchè qualche album dopo viene allontanato e sostituito con l'attuale Axel "Ironfinger" Ritt, sedicente guitar hero in forza da seimila anni nei Domain.

I Digger, reclutato questo nuovo "fenomeno" alla sei corde decidono di fare quello che farebbe qualsiasi gruppo in piena crisi di mezza età: rispolverare il vecchio repertorio e riproporre dal vivo per intero l'album di maggior successo ("Tunes Of War", ispirato alla storia e alle battaglie della Scozia per conquistarsi l'indipendenza) e pochi mesi dopo danno alle stampe quello che dovrebbe essere il seguito ideale dello stesso album ("The Clans Are Still Marching"), osannato dalla critica ma che da queste parti non s'è guadagnato nemmeno un secondo ascolto, come gli ultimi 2-3 dischi del combo.
Il tempo di pubblicare "Clash Of The Gods" poco tempo dopo, anch'esso dotato della stessa mancanza di idee e di mordente, oltre che nel lavoro di chitarra e di composizione in generale, soprattutto nel lavoro dietro al microfono di Chris Boltendahl, con gli anni sempre più annoiato, ridondante e banale sia nei testi, sia nelle linee vocali.
I riff si fanno tutt'altro che memorabili, c'è una mancanza generale di coinvolgimento dell'ascoltatore, soprattutto a livello dei cori (aspetto che in passato ha salvato moltre composizioni della band) ed, a mio avviso, un senso generale di noia sia nel produrre il disco, sia nell'ascoltarlo.

Dal cilindro indossato per l'occasione, i nostri si inventano questa operazione revival, sperando che il titolo del loro primo capolavoro smuova gli animi, ed i portafogli, dei tanti che ancora li seguono.
Sinceramente, ascoltati gli ultimi lavori, ho preso molto con le pinze dichiarazioni di questo tipo, non aspettandomi altro che l'ennesimo album mediocre e di mestiere.

Sono stato costretto a ricredermi, ma a metà.

Delle atmosfere del già troppo citato "The Reaper" c'è veramente poco: la band continua a viaggiare sulle coordinate degli ultimi lavori, talvolta strizzando l'occhio, specie sui mid-tempo, al lavoro fatto da Schmidt nel suo periodo calante ("The Last Supper" e successivi), ma qualche passaggio azzeccato c'è, per quanto il riffing, e soprattutto il lavoro solista di Ritt non mi faccia gridare affatto al miracolo. A tratti sembra però di percepire l'aggressività di un tempo del vecchio leone spelacchiato dietro al microfono.
Non me la sento di parlare di pezzi particolari, perchè se fosse per me farei un mega copia-incolla dei vari brani per ottenere 10 minuti di disco abbastanza valido, ma va dato atto ai ragazzi (vabbè, ragazzi) che la voglia di tornare ai fasti di un tempo c'è e si sente.

Ora si profilano vari scenari in cui sperare per poter apprezzare nuovamente i Grave Digger ai livelli che sarebbero loro consoni:
-Uwe Lulis impazzisce, decide di ricominciare a suonare come Cristo comanda e di tornare nel gruppo.

-Axel Ritt decide di suonare come secondo chitarrista, dando un senso pratico al suo aspetto da residuo bellico degli anni Ottanta stimolandosi a dovere con il suo nuovo collega cercando di tirar fuori qualcosa di veramente buono.

-Chris Boltendahl smette di pensare al golf e alle cazzate e decide che vuole ricominciare a fare sesso con le groupies che probabilmente non ha mai avuto, e torna a urlare come si deve.

Se non si verificheranno queste condizioni, ho paura che i Grave Digger continueranno ad essere una delle tante band che vanno avanti per inerzia, semplicemente perchè altrimenti non saprebbero cosa fare nella vita e come continuare a portare la pagnotta a casa.
Certo, sempre meglio andare per inerzia con un passato glorioso e una carriera più che trentennale alle spalle piuttosto che esplodere e spegnersi dopo due anni, come tanti, troppi gruppi odierni.
Dai, tiratele fuori 'ste palle, che ora che c'avete un'età vi escono da sole dai pantaloni. Basta solo chinarsi a raccoglierle.

domenica 15 giugno 2014

Terror Metal is back. Again. And again.


Terzo tentativo di riportare in vita la creatura che è stata per troppo tempo messa in stand-by chiamata Terror Metal.
Le annuali esigenze di Aruba, con sempre più frequenti tsunami a minare la nostra attività, nonchè le attività illecite di riciclaggio nella stessa isola da parte di ben noti contrabbandieri internazionali non sono riuscite a piegarci.
In realtà ci sono ben riuscite perchè il vecchio sito www.terrormetal.it è purtroppo defunto e caduto nell'oblio: le recensioni, gli articoli e tutti i contenuti sono stati cancellati dalla faccia della terra in un impeto di odio verso l'indifferenza. Non ci sono più tracce delle recensioni di grandi perle quasi sconosciute come i dischi degli Intruder o dei Restless, la monografia sul Thrash brasiliano, i reportage di Festival ben poco riusciti e le interviste a personaggi discutibilmente altezzosi.
Ma stavolta si ritorna definitivamente dopo un altro breve esperimento di trasferire l'intero sito sul blog naufragato immediatamente per totale mancanza di tempo dell'unico sopravvissuto dalla vecchia esperienza aka Io.
Se l'altra volta l'immagine più rappresentativa era una Fenice, questa volta, seguendo anche la moda degli ultimi anni, sarà più indicato uno zombie morto, storto, risorto, e trisorto. Sperando che questa volta non ci siano i soliti Bruce Campbell a motosegarci o Tallahassee a sfasciarci a colpi di banjo.
Aggiornamenti non periodici, che mica mi pagano, ma dati dalla casualità, cioè quando c'è qualcosa da dire.
Per ora, in bocca al lupo a me, e bentornati a voi.
A presto.

Metal Detector aka Night Rocker