venerdì 11 luglio 2014

Grave Digger - Return Of The Reaper (2014)


Tracklist:
  1. Return of the Reaper
  2. Hell Funeral
  3. War God
  4. Tattooed Rider
  5. Resurrection Day
  6. Season of the Witch
  7. Road Rage Killer
  8. Dia de los Muertos
  9. Satan's Host
  10. Grave Desecrator
  11. Death Smiles at All of Us
  12. Nothing to Believe

È molto difficile, se non impossibile, tornare ai livelli del passato. Benchè sia stato sbandierato ai 4 venti, con molto anticipo rispetto all'uscita dell'album e con un po' di arroganza, che codesto nuovo "Return Of The Reaper" avrebbe ripreso le atmosfere e lo stile della coppia "The Reaper" e "Heart Of Darkness" (veri e propri massi di granito, imperdibili per qualsiasi fan della band di Chris Boltendhal e soci). Questo nuovo lavoro ne riprende, per quanto mi riguarda, semplicemente il titolo.

Quando uscì "The Reaper" era il 1993 e lo speed-heavy metal tedesco era già stato inventato e perfezionato da tempo, e la qualità di uscite ad alto livello era impressionante: gli Accept avevano già pubblicato da anni i loro capolavori e se ne uscivano con "Objection Overruled", disco che segnava la riunione con il figliol prodigo Udo e sanciva praticamente la fine della prima grande era della band, da qualche anno tornata alla carica in gran spolvero con il buon Mark Tornillo che riesce nel quasi impossibile compito di non farci rimpiangere il nostro nano da giardino preferito; i Blind Guardian si preparavano a scrivere "Imaginations From The Other Side", che uscirà due anni più tardi e diventerà in breve il punto di riferimento (mai raggiunto) per tutti i gruppi dell'esplosione power-fantasy negli anni a seguire e gli Helloween vagavano in lidi più melodici con il discusso "Chameleon" mentre il fuoriuscito Kai Hansen umiliava Weikath con "Insanity And Genius" dei suoi Gamma Ray.

In questo fiorente contesto c'era anche una ulteriore realtà attiva dal 1980 che, con alcune validissime pubblicazioni alle spalle, aveva provato a cambiare nome e darsi ad un genere più commerciale ("qualcosa da classifica che suonasse come Bon Jovi") con il solo intento di diventare famosi, con risultati disastrosi per loro, e più che discreti per me: "Stronger Than Ever" dei Digger di commerciale non ha nulla, ma è semplicemente un tipico disco heavy tedesco degli anni '80 con qualche tastiera pacchiana e un po' più di melodia. Ed una copertina che definire ridicola sarebbe riduttivo.

Insomma, ritornati in carreggiata sotto il veccho monicker, e con la stessa formazione dell'ultimo fiasco, che comprendeva la presenza alla sei corde del buon Uwe Lulis, i nostri sfornano quella mazzata nei denti che risponde al titolo di "The Reaper". Mentre i primi album erano tutto sommato dei bei dischi di speed metal da cuoio, borchie, moto e birra (la fica i GD non sanno nemmeno cosa sia, specie dopo la foto di gruppo sul retro di "War Games" che vi consiglio di andare a cercare: è un gioiellino del trash) di cui è da apprezzare la sincerità estrema, con questo nuovo lavoro i Grave Digger entrano di prepotenza nell'Olimpo della scena heavy tedesca ed Europea. Composizioni dirette, veloci, solide e riff più o meno semplici ma coinvolgenti al massimo fanno da tappeto sonoro alla voce inconfondibile dello zio Chris senza mai perdere il tiro per un secondo: ascoltare "The Reaper" vuol dire ritrovarsi con il pugno alzato a fare headbanging anche in metropolitana.
L'EP "Symphony Of Death", uscito l'anno successivo, funziona come una macchina oliata alla perfezione (e ti credo, c'è Jorg Michael alla batteria), riprendendo lo stile di "The Reaper" e portandolo a livelli ancora superiori.
Il successivo "Heart Of Darkness" è dotato di composizioni leggermente rallentate ma dal felling oscuro ed ancora più rocciose.
Inutile raccontare del successo esplosivo con la trilogia medievale ("Tunes Of War", "Knights Of The Cross" ed "Excalibur"), in cui il gruppo trova la sua dimensione rendendo sempre più epiche le proprie composizioni, lavorando su dei concept storici e infarcendo i pezzi di cori perfetti in sede live.
Dopo "Excalibur" qualcosa si rompe nella macchina: Uwe Lulis se ne va dal gruppo, fonda i Rebellion e perde immediatamente tutta la sua creatività, impegnando le proprie forze per perdere una causa legale contro Boltendhal atta a poter mantenere per sè il monicker "Grave Digger" (che poi non è che ci volesse una sentenza del tribunale per capire che il gruppo l'ha fondato quell'altro e tu non devi rompere le palle).

Alla chitarra arriva Manni Schmidt, fuoriuscito anni prima dai Rage e coautore dei primi album del gruppo (quelli più sanguigni, precedenti alla svolta pseudo orchestrale), che dopo un paio di buone prove in studio, e figure misere dal vivo (almeno un assolo, UNO, potevi ricordartelo, brutto panzone), perde anch'egli la creatività e si adagia su una serie di composizioni fiacche, monotone, finchè qualche album dopo viene allontanato e sostituito con l'attuale Axel "Ironfinger" Ritt, sedicente guitar hero in forza da seimila anni nei Domain.

I Digger, reclutato questo nuovo "fenomeno" alla sei corde decidono di fare quello che farebbe qualsiasi gruppo in piena crisi di mezza età: rispolverare il vecchio repertorio e riproporre dal vivo per intero l'album di maggior successo ("Tunes Of War", ispirato alla storia e alle battaglie della Scozia per conquistarsi l'indipendenza) e pochi mesi dopo danno alle stampe quello che dovrebbe essere il seguito ideale dello stesso album ("The Clans Are Still Marching"), osannato dalla critica ma che da queste parti non s'è guadagnato nemmeno un secondo ascolto, come gli ultimi 2-3 dischi del combo.
Il tempo di pubblicare "Clash Of The Gods" poco tempo dopo, anch'esso dotato della stessa mancanza di idee e di mordente, oltre che nel lavoro di chitarra e di composizione in generale, soprattutto nel lavoro dietro al microfono di Chris Boltendahl, con gli anni sempre più annoiato, ridondante e banale sia nei testi, sia nelle linee vocali.
I riff si fanno tutt'altro che memorabili, c'è una mancanza generale di coinvolgimento dell'ascoltatore, soprattutto a livello dei cori (aspetto che in passato ha salvato moltre composizioni della band) ed, a mio avviso, un senso generale di noia sia nel produrre il disco, sia nell'ascoltarlo.

Dal cilindro indossato per l'occasione, i nostri si inventano questa operazione revival, sperando che il titolo del loro primo capolavoro smuova gli animi, ed i portafogli, dei tanti che ancora li seguono.
Sinceramente, ascoltati gli ultimi lavori, ho preso molto con le pinze dichiarazioni di questo tipo, non aspettandomi altro che l'ennesimo album mediocre e di mestiere.

Sono stato costretto a ricredermi, ma a metà.

Delle atmosfere del già troppo citato "The Reaper" c'è veramente poco: la band continua a viaggiare sulle coordinate degli ultimi lavori, talvolta strizzando l'occhio, specie sui mid-tempo, al lavoro fatto da Schmidt nel suo periodo calante ("The Last Supper" e successivi), ma qualche passaggio azzeccato c'è, per quanto il riffing, e soprattutto il lavoro solista di Ritt non mi faccia gridare affatto al miracolo. A tratti sembra però di percepire l'aggressività di un tempo del vecchio leone spelacchiato dietro al microfono.
Non me la sento di parlare di pezzi particolari, perchè se fosse per me farei un mega copia-incolla dei vari brani per ottenere 10 minuti di disco abbastanza valido, ma va dato atto ai ragazzi (vabbè, ragazzi) che la voglia di tornare ai fasti di un tempo c'è e si sente.

Ora si profilano vari scenari in cui sperare per poter apprezzare nuovamente i Grave Digger ai livelli che sarebbero loro consoni:
-Uwe Lulis impazzisce, decide di ricominciare a suonare come Cristo comanda e di tornare nel gruppo.

-Axel Ritt decide di suonare come secondo chitarrista, dando un senso pratico al suo aspetto da residuo bellico degli anni Ottanta stimolandosi a dovere con il suo nuovo collega cercando di tirar fuori qualcosa di veramente buono.

-Chris Boltendahl smette di pensare al golf e alle cazzate e decide che vuole ricominciare a fare sesso con le groupies che probabilmente non ha mai avuto, e torna a urlare come si deve.

Se non si verificheranno queste condizioni, ho paura che i Grave Digger continueranno ad essere una delle tante band che vanno avanti per inerzia, semplicemente perchè altrimenti non saprebbero cosa fare nella vita e come continuare a portare la pagnotta a casa.
Certo, sempre meglio andare per inerzia con un passato glorioso e una carriera più che trentennale alle spalle piuttosto che esplodere e spegnersi dopo due anni, come tanti, troppi gruppi odierni.
Dai, tiratele fuori 'ste palle, che ora che c'avete un'età vi escono da sole dai pantaloni. Basta solo chinarsi a raccoglierle.

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