venerdì 26 settembre 2014

Ahab - The Call Of The Wretched Sea (2006)

Tracklist:
01 Below The Sun
02. The Pacific
03. Old Thunder
04. Of The Monstrous Pictures Of Whales
05. The Sermon
06. The Hunt
07. Ahab's Oath

Quesa volta partiamo da una foto.
Il primo documento fotografico che immortala gli Ahab è datato 2009, anno in cui la band aveva già due album all'attivo: uno appena uscito, intitolato "The Divinity Of Oceans", ed un altro, "The Call Of The Wretched Sea", pubblicato 3 anni prima, che è quello di cui parleremo in questa recensione.

Restando fedeli alla loro ossessione per l'Oceano, evidente in ogni aspetto della band, dal nome, ai titoli dei dischi, alle copertine, alle sonorità, ai testi, i quattro si fanno immortalare completamente zuppi, inseriti tramite un po' di Photoshop nel mezzo di una desolazione fatta di nuvoloni neri e di pioggia. Le stesse nuvole che terrorizzano l'equipaggio del Pequod nella maggior opera di Melville e che costringono Gordon Pym a resistere per giorni e giorni legato con delle funi pur di non soccombere alla tempesta che investe il Grampus con la forza di un'Apocalisse nell'unico romanzo di Edgar Allan Poe. Due opere che hanno influenzato alla grande il quartetto di Heidelberg , tanto da realizzarne due concept: Melville e la sua Balena Bianca in questo album di debutto ed in misura minore nel successivo, al cui centro vi è la storia della baleniera Essex, che è servita da ispirazione per Moby Dick, e Gordon Pym nel terzo, e ad oggi ultimo, "The Giant".
 

L'immagine del gruppo completamente isolato dal mondo, inerme e spaventoso nonostante l'assoluta mancanza di pose tamarre alla Behemoth, descrive alla perfezione la musica di questo dischetto che stiamo prendendo in esame, mentre si discosta parecchio, almeno a livello visivo, dai due lavori successivi, dalle componenti sempre meno funeral e più orientati ad una sperimentazione nelle atmosfere che, immagino, complice anche il progressivo abbandono del growl, strizzerà prima o poi l'occhiolino anche ad una certa psichedelia figlia degli anni '70.

Dopo i 30 secondi di intro di "Below The Sun", gli Ahab ci prendono a braccetto sulla loro scialuppa lasciata alla deriva in mezzo all'Oceano sconfinato. Le chitarre, opportunamente abbassate, ci imprigionano in un vortice di correnti che non lasciano scampo, e che inesorabilmente, prima o poi, ci cattureranno nel loro freddo abbraccio. In alto, sopra le nuvole cariche di pioggia, dove il sole splende, invisibile alla vista dei mortali, si stagliano tastiere e melodie soliste di una semplicità imbarazzante, usate qui con parsimonia, ma sempre in grado di permetterci di trarre un bel sospiro e di immergerci nuovamente in un'immensità claustrofobica fatta di distorsioni, riverberi e delay settati con esperienza a formare un colossale wall of sound che nemmeno Phil Spector sarebbe stato capace di immaginare.

A farla da padrone sono i growl catacombali del cantante-chitarrista-leader Daniel Droste, che sembrano provenire direttamente da abissi sconfinati, al di fuori dello spazio e del tempo. Come se si trattasse degli ultimi echi della caduta di Atlantide.

Questa massa nera, informe, pesantissima, è sorretta dalla batteria puntuale di Cornelius Althammer, qui presente in veste di turnista, ma poi fortunatamente entrato in pianta stabile nel gruppo, bravissimo nel distinguersi dalla massa di batteristi doom capaci solo di pestare con violenza su tempi ultradilatati, riuscendo ad essere fantasioso tramite l'inserimento di numerosi fill, soprattutto sui piatti, al limite del jazz, senza perdere un briciolo della pesantezza che il funeral richiede.

Un disco difficile da ascoltare nella sua interezza, complice sia la durata (7 pezzi per settanta minuti), sia per la sensazione di oppressione che vi attanaglierà dalla prima all'ultima nota, ma di cui difficilmente, una volta che il sale vi sarà entrato dentro, ed il vento avrà bruciato la vostra pelle, potrete fare a meno. Un viaggio interiore, al pari di un monolite come "Dopesmoker".

Anche Gregory Peck vi consiglia di ascoltare gli Ahab


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