domenica 27 luglio 2014

Carcharodon - Roachstomper (2013)

Tracklist:
1. Stoneface Legacy
2. Pig Squeal Nation
3. Adolf Yeti
4. Beaumont, TX
5. Jumbo Squid
6. Marilyn Monroid
7. Chupacobra
8. Burial In Whiskey Waves
9. Alaska Pipeline
10 Voodoo Autopsy
11. The Sky Has No Limits

Mentre il comandante Schettino, tra una data con gli Hideous Divinity e un processo, se la spassa di bianco vestito tra festini Vip tutti lampade e cocaina, la sua Costa Concordia procede nel lento, inesorabile, ultimo viaggio verso Genova, dove verrà demolita da quattro rozzissimi frequentatori delle peggiori bettole della Liguria a forza di riffoni "grossi come montagne", di sguaiatissimi cori e di growl puzzolenti di alcool semi-digerito.

I quattro in questione sono i Carcharodon, band che, purtroppo, in Italia non ha ancora il nutrito seguito che meriterebbe, ma che può permettersi lunghe tourneè negli Stati Uniti (dove, per certe sonorità, hanno l'occhio molto più lungo del nostro), e dove vengono invitati tranquillamente, come vecchi amici, alle prove di gente come i Crowbar, gruppo sicuramente presente nello sterminato panorama ispirativo dei quattro Alassini.

Che la scena doom, sludge, stoner et similia Italiana goda di ottima salute e non abbia assolutamente nulla da invidiare a quella di zone con una tradizione ben più radicata nel genere non è sicuramente una novità, ed il fatto, ad esempio, che il concerto dei Pagan Altar, l'anno scorso, sia stato letteralmente oscurato dalle esibizioni magistrali dei supporter Doomraiser e Caronte, parla chiaro. Mentre da noi tutti questi ragazzi sono costretti ad organizzarsi da soli i concerti, magari invitandosi a vicenda, o a doversi ridurre al (dignitosissimo, per carità) ruolo di supporter, all'estero possono permettersi di spadroneggiare a testa altissima tra i grandi headliner dei festival di genere.

Insomma, come suonano questi Carchardon? Suonano Americanissimi. Suonano come suonerebbe Elvis se girovagasse per gli Stati del Sud dopo essere risorto dalla tomba, ovviamente vestito da Gallo Cedrone, trascinando i suoi arti putrefatti da Mephis alla Lousiana, passando per il Texas. La bravura dei nostri sta proprio nel rifarsi ad un certo immaginario, sicuramente non appartenente alla nostra tradizione, senza risultare assolutamente fuori posto, e senza dare alcuna impressione di scimmiottamento all'Italiana. I Carcharodon sono perfettamente credibili nella loro parte di vecchi redneck con gli stivali pieni di fango, che passano le serate su di un divano semidistrutto nel patio a masticare tabacco e a bere Whisky distillato illegalmente, andando a caccia di alligatori per passare il tempo.
 L'autodefinizione "Macho-Metal" che i ragazzi si danno è un mix infernale, come già accennato, di sludge con la panza e doom molto maschio, di un death'n'roll fortemente debitore della scuola Entombed e di un r'n'r con la barba, con decise influenze che vanno dal country, al rockabilly, al blues e più in generale a tutta la più smaccata tradizione sudista.

Tutto, in questo "Roachstomper", è curato sin nel minimo dettaglio. L'iniziale impressione di caos dei primi ascolti lascerà ben presto il posto ad una sensazione profonda, una voglia di sfasciarsi al suono dei chitarroni distortissimi della coppia di asce Max e Boggio, fondatore del gruppo insieme al fratello Pixo, basso e voce. A chiudere la formazione, dietro le pelli, c'è Zack, a dare un po' di ordine con un drumming preciso, potente e scarno, ma molto poco scontato. Ogni fase di questo disco scorre con una fluidità pazzesca, pur essendo perfettamente imprevedibile. Anche solo nell'opener "Stoneface Legacy" c'è tanta di quella carne al fuoco che viene da chiedersi come i ragazzi siano riusciti a rendere il tutto così organico e a dare ad ogni pezzo un tiro ed un suono inconfondibili. Enormi riff super dilatati si alternano con piacere a sfuriate dal tiro micidiale, ad arpeggi, ad assoli melodici di gran gusto, ad inserti di slide guitar, mentre la voce passa senza soluzione di continuità da un growl imbastardito ad uno molto più profondo e cavernoso a cori armonizzati e chi più ne ha più ne metta.

Ci si lascia volentieri trasportare nelle atmosfere da live infuocato con "Pig Squeal Nation", da cantare a squarciagola con una bottiglia in mano, preferibilmente in locali pieni zeppi di gente sudatissima, con la successiva "Adolf Yeti", nata apposta per scatenare un putiferio sopra e sotto il palco, o su "jumbo Squid" tutta da saltare con un cappello in testa. "Beaumont, TX", dopo un'intro lenta ed evocativa, lascia spazio ad uno dei migliori riff del lotto: lungo, lento, pesantissimo, eccessivo in tutto e per questo vincente. Le influenze country si trovano seminate lungo tutto il disco, siano assoli, riff o semplici fill, ma vengono evidenziate alla grande in "Marylin Monroid", inno alle pin-up amanti del sesso estremo, in cui riff pesanti e veloci si alternano alla grande a galoppate in finger picking che chiamano a gran voce la presenza di un banjo. "Burial In Whiskey Waves" , dopo una lunga sfuriata inziale, acquista un sapore da colonna sonora, grazie ad un inaspettato intermezzo di tastiere, chitarre armonizzate e cori, mentre la conclusiva "The Sky Has No Limits", estremamente varia, è infarcita delle più svariate idee, tra psichedelia alla Black Sabbath prima maniera, il rock di Chuck Berry, lo sludge dei Down, e quant'altro la fervida immaginazione dei 4 sia riuscita a partorire.

Alcuni passaggi di questo "Roachstomper" potrebbero essere usciti tranquillamente da un lavoro dei Mastodon, senza (per fortuna) la componente troppo caotica che da sempre caratterizza la band di Troy Sanders e soci, ma con un'organizzazione che raramente si trova nei lavori moderni, dove si ha troppo spesso la sensazione di avere semplicemente dei riff incollati tra di loro.

Un disco sanguigno, viscerale, vario, incontenibile, che porta i nostri molti gradini più in alto rispetto al debutto "Macho Metal", ormai del 2008. Questo "Roachstomper" forgia un sound sfaccettato, caleidoscopico, riconducibile a mille e più gruppi, generi e stili diversi, o più semplicemente riconducibile direttamente a quella che per quanto mi riguarda è attualmente tra le migliori, se non la migliore realtà italiana: i Carcharodon.

giovedì 24 luglio 2014

Count Raven - Mammons War (2009)


Tracklist:
1. The Poltergeist
2. Scream
3. Nashira
4. The Entity
5. Mammons War
6. A Lifetime
7. To Kill A Child
8. To Love, Wherever You Are
9. Magic Is...
10. Seven Days
11. Increasing Deserts

Immaginate i Black Sabbath dell'era Ozzy (non quelli di adesso: quelli ben drogati), pompatene i riff con dosi massicce di testosterone e mettete a cantare uno con la stessa voce del Madman, ma con un minimo di competenza musicale: ecco a voi i Count Raven.

Svedesi di Stoccolma, attivi dagli ultimi anni 80 e con all'attivo solamente 5 album che costituiscono una delle migliori discografie dell'intera scena Doom mondiale, sono passati fondamentalmente attraverso 3 fasi più o meno distinte: la prima va dal cambio nome (da Stormwarning a Count Raven) all'abbandono del cantante di allora Christian Linderson che, dopo la pubblicazione dell'omonimo "Storm Warning", agli svedesi preferisce una (breve) militanza nei Saint Vitus, con i quali ha pubblicato "C.O.D.", per poi vagabondare alcuni anni nell'ambiente doom ed approdare infine nei Lord Vicar in pianta più o meno stabile. La seconda "era" parte appunto con l'abbandono di Linderson, il cui posto dietro al microfono viene occupato dal chitarrista e mastermind Dan Fondelius, il quale plasma l'inconfondibile sound retro del gruppo. Di questo periodo fanno parte i tre dischi fondamentali "Destruction Of The Void" del '92, "High On Infinity" del '93 e "Messiah Of Confusion" del '96, incisi con la formazione storica: Fondelius alla chitarra e alla voce, Tommy Ericksson al basso e Christer Pettersson alla batteria. Dopo alcuni anni di tira e molla, tra reiterati scioglimenti e reunion, Fondelius dà il via alla terza era dei Count Raven, che consiste in una sorta di suo progetto solista, con poca o nessuna promozione dal vivo, ma con la pubblicazione di questo "Mammons War" del 2009. Disco che si distingue nell'ormai pienissimo calderone Doom per una sua caratteristica tanto banale quando speciale: l'avere veramente qualcosa da dire.

I riff granitici alla Black Sabbath sono onnipresenti come da manuale, ma a questi si aggiungono con discrezione tastiere e sintetizzatori in modo per niente invasivo,  a costituire un perfetto complemento agli strumenti tradizionali,  oltre ad inserti melodici, chitarre acustiche e momenti più atmosferici.

Basta ascoltare i trascinanti riff dell'opener "The Poltergeist", così come la successiva "Scream", litania di raro pregio in cui il lider maximo della band offre una prova maiuscola dietro al microfono, o i riff arabeggianti di "Nashira" con il emozionante assolo seriamente degno di nota, o le atmosfere quasi sludge di "The Entity", per venire catapultati all'istante nel periodo di "Vol. 4" e dintorni, con la differenza che durante la registrazione di questo "Mammons War", più che di cocaina, avranno abusato solamente di Voltaren.

La prima sorpresa ci arriva con la title track, essenzialmente un inserto di tastiere, synth e cori a far da tappeto ad una lamentosissima predica super-effettata che ricorda molto da vicino il testo di "War Pigs". Per quanto mi riguarda un gioiellino di rara fattura.

Il resto dell'album scorre tra composizioni più lunghe ed articolate, stranamente inserite in quello che sarabbe il B-side dell'album, ma che non fanno calare di un millimetro la qualità globale dell'opera, grazie sempre e soprattutto alla prova magistrale di Fondelius, sia al microfono che, alle chitarre, con le quali riesce a rendere particolare anche un riff uguale ad un altro ascoltato 30 secondi prima.

Andando ad analizzare formalmente l'album, si dovrebbe parlare di un disco perfettamente doom, ben suonato, arrangiato e prodotto, ma che fondamentalmente non agiunge nulla di nuovo a quanto già fatto negli anni. Questa parvenza di normalità viene però smentita dai suddetti più melodici e riflessivi, strada che, ad onor del vero, è stata già battuta dai Padri con "Changes": nella fattispecie la già citata "Mammons War", la gelida ed appassionata "To Love, Wherever You Are", stupenda dichiarazione d'amore modulata su di un arpeggio formato da sole 4, efficacissime note, e l'eterea "Increasing Deserts", posta a chiudere il disco, che costituisce, per ora, il sigillo ad un testamento musicale che difficilmente verrà raccolto negli anni a venire. Queste tracce sono il vero valore aggiunto di un disco che vale di per sè già parecchio, e che riesce ad imprimersi nell'ascoltatore con una forza inaudita.

I Count Raven non saranno il vostro ascolto quotidiano. Su questo potete giocarvi quello che vi pare. Ma ogni tanto vi troverete a rispolverarli, ed ogni volta sarà una nuova angosciante ma eccitante discesa in un Maelstrom sonoro.

lunedì 21 luglio 2014

Hammerfall - Bushido (2014)






Tracklist:
1. Bushido
2. The Way Of The Warrior

Ah, gli Hammerfall! Da gruppo di punta durante il boom del power metal negli anni 90 con i primi due album, da band alla quale mancava pochissimo per diventare di diritto gli eredi degli Accept, da potenziale nuovo headliner dei futuri festival, quando le vecchie glorie saranno troppo vecchie per monopolizzare i palchi, a cosa? A pura macchietta di se stessi e di tutti i peggiori e più noiosi stereotipi del "learn how to play metal" su Youtube.

Nonostante il responso di pubblico e di vendite, che hanno sparato "Threshold", nel 2006, direttamente al primo posto della classifica svedese, siano stati effettivamente notevoli; nonostante i Main Stage dei vari Wacken e compagnia bella abbiano iniziato ad essere calcati dai cinque di Gothenburg in ore sempre più tarde e vicine al vero e proprio main event; nonostante la Nuclear Blast spenda da anni soldi su soldi per promozioni stellari, concerti in immensi parchi naturali (ah, se posso dirla tutta, il live Dvd "Gates Of Dalhalla" è di una noia mortale proprio per il posto, con il pubblico forzatamente seduto a 50 metri dalla band ed un'impressione di stasi generale che fortunatamente non è presente nelle normali esibizioni del gruppo che, anzi, dal vivo tende ad essere molto godibile e coinvolgente); insomma nonostante sembrino oggettivamente lanciatissimi e sempre in procinto di fare il grande botto, quello che ti catapulta nell'Olimpo, ho sempre avuto l'impressione che negli ultimi 10 anni gli Hammerfall si siano abituati all'idea del "vorrei ma non posso".

Dopo l'uscita di "Crimson Thunder", gran disco di puro heavy metal come non si sentiva da tempo, Joacim Cans e compagni avevano la strada spianata di fronte: potevano continuare a scrivere grandi album ed entrare nella leggenda o adagiarsi sugli allori e pubblicare album monotoni e ripetitivi per poter garantire un'uscita ogni 2-3 anni, tempi già troppo lunghi per una major come la Nuke, la cui attività prediletta sembra essere quella di spremere i propri gruppi più a fondo possibile per alcuni anni a ritmo di album-tour-album-tour per poi dare il benservito nel momento esatto in cui l'attenzione del pubblico sembri rivolta altrove. Purtroppo hanno scelto la seconda via, godendo peraltro dei favori della stessa Nuclear Blast, che li supporta ormai da quasi vent'anni.

Data l'oggettiva ma ovviamente taciuta scarsità di idee degli ultimi dieci anni, Oscar Dronjak (principale se non unico compositore del gruppo) e compagni hanno deciso di prendersi un abbondante anno sabbatico per ricaricare le pile. In questo periodo penso ci siano state parecchie riunioni con gli esperti di marketing dell'azienda che avranno fatto notare la qualità discendente delle varie pubblicazioni. Come si fa in un colpo solo a riconquistare fans, attenzione della stampa, credibilità (che, ad onor del vero, non è mai mancata), e soprattutto i soldi del pubblico, compresi quelli che hanno mal digerito la monotonia dei vari "Infected", "No Sacrifice, No Victory" e dello stesso "Threshold"?

Si telefona a Fredrik Nordstrom, produttore, dei primi due album della band, e poi ad Andreas Marshall, disegnatore ormai poco considerato, ma che è stato per gli anni 90 l'equivalente di un Derek Riggs per gli 80s, o di un Ed Repka per la scena Thrash. Basti sapere, a quelli che ancora non lo conoscono, che qualsiasi uscita di un qualche valore della scena Tedesca-Scandinava degli anni 90 porta la sua firma. Per citare qualcuno dei suoi (capo)lavori: "Imaginations From The Other Side" e "Nightfall In Middle Earth" dei Blind Guardian, "the Jester Race", Colony" e "Whoracle" degli In Flames, più tantissimi altri tra cui Mercyful Fate, Destruction, Dimmu Borgir, Rage, Running Wild, Grave Digger e chi più ne ha più ne metta. Lo si chiama e gli si propone un bell'assegno per una copertina-revival che si rifaccia all'artwork dei primi due album della band, disegnati appunto dallo stesso Marshall che, oltre a plasmare il templare che sarebbe diventato poi la mascotte del gruppo, riporta l'occhio e la mente del fruitore a quel periodo della seconda metà degli anni 90, in cui o ascoltavi power e ti mettevi la camicia bianca modello Louis XV o venivi estromesso da qualsiasi gruppo di metallari sulla faccia della terra.

Artwork e produzione che rimandano ai primi, grandi lavori del gruppo, vena creativa fresca e rinnovata. Qual è il risultato?

"Bushido" è una merda. Scelto come singolo apripista per l'imminente "(r)Evolution", titolo dall'originalità discutibile, pare essere, almeno stando alle interviste promozionali, l'unico pezzo che ha messo tutti d'accordo nella scelta del singolo. A sentire Dronjak perchè "la qualità di ogni canzone è talmente alta che avrebbero potuto essere tutte dei potenziali singoli". Visto che non stiamo parlando nè dei Def Leppard di "Hysteria", nè di Michael Jackson di "Thriller", ho paura che sia semplicemente, come spesso accade, il pezzo migliore dell'album, o almeno il meno peggio.

Songwriting stanco, accordi canonici, ritmiche da manuale ed un chorus dimenticabile. Per me "Bushido" è tutto questo. E i commenti su facebook di gente che afferma di averlo sentito venti volte di fila con la pelle d'oca non fanno altro che regalarmi un sorriso. A completare l'EP, invero molto, troppo scarno, una versione remixata dallo stesso Nordstrom di "The Way Of The Warrior", pezzo tratto da "Renegade" (disco in cui fanno bella mostra molti pezzi di altissima qualità, tra i quali purtroppo questo è assente) che aggiunge poco o nulla al risultato finale. E Fai disegnare a Marshall pure questa di copertina no? Tra l'altro stiamo parlando di un templare vestito da Samurai, non so se mi spiego.

Oscar, non ti basta Marshall, devi tornare a farti moro e a vestirti da modello BDSM. Magari ne gioverebbe pure la musica.

domenica 20 luglio 2014

Il Black Album e la sindrome della Merda



Lo ammetto, non mi sono mai piaciuti i Mastodon nè mi è mai interessato approfondire la loro conoscenza. Li ho visti un paio di volte distrattamente dal vivo nell'attesa di altri concerti e li ho sempre trovati troppo confusionari per i miei gusti. Non che non mi piaccia la confusione musicale, ma semplicemente non trovo particolare interesse nel non riconoscere i vari riff delle canzoni. Questo almeno nel metal, ovviamente.

La mia attenzione è stata un attimo stimolata quando in una recensione dell'ultimo lavoro dei suddetti Mastodon, intitolato "Once More 'Round The Sun" ho letto testuali parole: "Con questo disco i Mastodon sono diventati una band di grande rock americano come potrebbero essere i Lynyrd Skynyrd o gli ZZ Top".

Premesso che sono parole forse un tantino altisonanti, e che non mi sembra di ricordare che lo stile dei due gruppi sopra citati sia minimamente paragonabile a quello dei Mastodon, sono rimasto stupito da molti commenti all'album, provenienti anche da gente che, per propria ammissione, ha seguito tutte le uscite della band, e che bollava il disco come una merda perchè hard rock - pop, perchè roba poppettara, una manciata di riffacci rock-stonereggianti (già qui si va più sul tecnico e ci posso stare), MastoPop, oltre ovviamente ad accusarli di essersi venduti per una manciata di passaggi in radio.



Io ora non so che radio ascoltino i suddetti commentatori, visto che a quanto dicono dovrebbero passare i Mastodon in una programmazione puramente pop-rock, nè il reale motivo per cui gli si debba dare dei venduti quando il disco, benchè sia strutturalmente più semplice rispetto agli altri lavori del gruppo, sia molto poco easy-listening, e pieno della confusione sonora di cui si parlava prima, solo un po' piùorganizata in favore della melodia e non dell'apocalisse.

Se non sbaglio c'è stato almeno un altro gruppo che ha vissuto una situazione del genere, e a distanza di venticinque anni c'è ancora chi dibatte sul fatto che il Black Album sia o meno un disco metal, se i Metallica abbiano pubblicato un disco del genere solo per soldi, se "Nothing Else Matters" sia solo un lento da liceali o una gran ballad scritta da persone insospettabili.

Io sono uno di quei tanti che considerano i Metallica fino al 1986. Già "...And Justice For All" mi risulta molto indigesto, e sono legato ad un certo tipo di thrash metal che già con l'ingresso di Newsted aveva iniziato ad essere molto meno presente nelle canzoni. Non considero il Black Album un disco metal, ma dobbiamo per forza dire che è merda?



Arriva un certo momento in cui la qualità prescinde dallo stile musicale. Non ci dovrebbero essere più diatribe sul "è metal, non è metal" o sul "si sono venduti o si sono ammorbiditi?", ma semplicemente sulla reale qualità oggettiva del prodotto. (Purtroppo) ormai non siamo più negli anni 80, quando chi ascoltava thrash passava l'intera giornata a sentire demo dei Kreator in cassetta o ad andare in moto vestito di cuoio se era più dedito all'Heavy. Ormai chiunque può ascoltare tutto e subito, con un enorme ampliamento della sfera degli interessi musicali di ognuno. Allo stesso modo c'è sempre più gente che ascolta Metal ma si schifa a definirsi Metallaro, come se fosse un'onta ignobile. Sono quindi portato ad immaginare che l'interesse di un metallaro-nonmetallaro sia rivolto ANCHE almeno alla scena Rock, e non capisco quindi il perchè reputare "Merda" un disco solo perchè suona più rock che metal, o più semplicemente perchè si è solo allontanato da quello che ti saresti aspettato da un gruppo.

Intanto, in tutto questo, Metallica e Mastodon se la ridono alla grande e pensano a godersi i propri soldi in qualche villona immersi completamente nelle tette, mentre noi siamo a farci le nostre belle pippette mentali.

James Hetfield quando era Vinnie Paul

Mercyful Fate - 9 (1999)






Tracklist:
1. Last Rites
2. Church Of Saint Anne
3. Sold My Soul
4. House On The Hill
5. Burn In Hell
6. The Grave
7. Insane
8. Kiss the Demon
9. Buried Alive
10. 9

Il canto del cigno dei Leggendari Mercyful fate è una bomba clamorosa. Passata inspiegabilmente e troppo in sordina. Mai negli anni ho sentito citare questo album in un discorso riguardante la band del Re Diamante. Citazioni che di solito si fermano ai soliti "Melissa" e "Don't Break The Oath": album meravigliosi che hanno plasmato un genere unico e considerate, a ragione, tra le pietre miliare dell'heavy metal inteso in senso ampio. Purtroppo ci si dimentica che i Danesi non sono morti nell'84 ma, tra scioglimenti, reunion, marchette per rescindere contratti discografici et similia, hanno continuato a pubblicare dischi fino al 1999, anno in cui vide la luce l'oggetto di questa recensione.

La band si presenta con questo album nella stessa formazione del precedente "Dead Again", uscito un anno prima, orfana già da qualche tempo  della presenza di Michael Denner, sostituito alla sei corde da Mike Wead, svedese della cerchia di Leif Edling e compagni, quindi sinonimo di garanzia assoluta, che peralto aveva già collaborato per alcuni anni con il Re per quanto riguarda la sua carriera solista. Formazione già consolidata, quindi, che vede, oltre ai già citati Wead e King Diamond, il buon Hank Shermann, altro fondatore del gruppo, insieme alle più recenti entrare Sharlee D'Angelo al basso (quando ancora bazzicava gruppi seri) e Bjarne T. Holm dietro le pelli.

La fase compositiva è stata lasciata interamente a Shermann e allo stesso King Diamond che, come per i suoi album solisti, tende a scrivere gran parte della musica oltre, ovviamente, ai testi, di cui è ed è sempre stato il padrone assoluto.

Sostanzialmente il sound generale dell'album non si discosta molto da quanto fatto negli ultimi anni, sia come struttura delle composizioni, basata su numerosissimi riff disposti in maniera mai scontata (caratteristica presente dagli albori della carriera della band), sia per quanto riguarda il "tiro" dell'album, sempre ben solito sia nei pezzi più veloci che nei mid-tempo, così come nelle sezioni che potremmo definire più, per modo di dire, melodiche. Chi ha ascoltato i vari "Dead Again" o "Into The Unknown" non dovrebbe avere particolari sorprese nemmeno per quanto riguarda il sound dell'album, parecchio ripulito rispetto agli inizi ma sempre molto heavy e potente.

Si parte alla grande con "Last Rites" che, dopo una breve intro srotola un tappeto di solida doppia cassa su cio vengono sciorinati i riff della coppia di chitarristi, magistralmente completati dall'inconfondibile stile vocale del Re (non devo spiegare che canta anche in falsetto, vero?) che ci racconta gli ultimi momenti di un uomo che rifiuta l'estrema unzione con grande e graditissima eresia. L'alternanza di parti veloci e rallentamenti sarà una costante di tutto il disco, e sarà impossibile avere quella sensazione sentita troppo spesso che un riff sia stato incollato ad un altro in maniera forzata: tutto scorre liscio come l'olio, o meglio come la pece. "Church Of Sain't Anne" è un mid-tempo cattivissimo ed ipnotico che costruisce l'atmosfera perfetta per una storia di corruzione veramente degna di nota, in cui a farla da padrona sono le evocazioni sulfuree del buon King Diamond, in grandissimo spolvero. "Sold My Soul" ipnotizza l'ascoltatore sin dai primi momenti per poi trasformarsi in un pezzo dal forte sapore teatrale. "House On The Hill" è sparata a mille, probabilmente il pezzo più veloce della loro intera discografia. "Burn In Hell" è una cavalcata heavy metal da manuale, incattivita da quel qualcosa in più che hanno i Mercyful Fate e che traspare da ogni singolo riff ed ogni singola nota. "The Grave" ci richiama all'immancabile appuntamento del SABBAto sera con l'apertura di parecchie fialette puzzolenti, notoriamente contenenti zolfo (dopotutto anche streghe, negromanti e satanisti vari dovranno pur arrangiarsi con ciò che trovano). "Insane" è un pezzo veloce, solido, diretto, sparato a mille sull'ascoltatore inerme. "Kiss The Demon", benchè non abbia nulla della psichedelia propriamente detta, sortisce lo stesso effetto sull'ascoltatore con le sue chitarre pulite super effettate che lasciano il posto a bei riffoni stoppati. Forse è il pezzo più insipido dell'intero album, per quanto possa essere insipido un pezzo dei Mercyful Fate, ovviamente. "Buried Alive", i cui testi potrebbero essere usciti direttamente dalla penna di Edgar Allan Poe tanto è chiara l'ispirazione. Questo è un caso palese di come la band sappia raccontare storie terrificanti dotate di una perfetta ed agghiacciante colonna sonora: uno dei momenti migliori dell'album. A chiudere il disco la title track, "9", unico pezzo scritto da Mike Wead che si discosta decisamente dallo stile della band puntando tutto sull'atmosfera diabolica ma che supera senza problemi la prova.

Insomma, se non conoscete i Mercyful Fate ascoltatelo, e andrete subito a scoprire l'intera discografia di uno dei miglior gruppi della storia dell'heavy metal, se non il migliore in assoluto. Se invece ne siete già appassionati, io vi consiglio di riprenderlo in mano e rendervi conto di cosa vuol dire essere delle leggende viventi.

venerdì 11 luglio 2014

Grave Digger - Return Of The Reaper (2014)


Tracklist:
  1. Return of the Reaper
  2. Hell Funeral
  3. War God
  4. Tattooed Rider
  5. Resurrection Day
  6. Season of the Witch
  7. Road Rage Killer
  8. Dia de los Muertos
  9. Satan's Host
  10. Grave Desecrator
  11. Death Smiles at All of Us
  12. Nothing to Believe

È molto difficile, se non impossibile, tornare ai livelli del passato. Benchè sia stato sbandierato ai 4 venti, con molto anticipo rispetto all'uscita dell'album e con un po' di arroganza, che codesto nuovo "Return Of The Reaper" avrebbe ripreso le atmosfere e lo stile della coppia "The Reaper" e "Heart Of Darkness" (veri e propri massi di granito, imperdibili per qualsiasi fan della band di Chris Boltendhal e soci). Questo nuovo lavoro ne riprende, per quanto mi riguarda, semplicemente il titolo.

Quando uscì "The Reaper" era il 1993 e lo speed-heavy metal tedesco era già stato inventato e perfezionato da tempo, e la qualità di uscite ad alto livello era impressionante: gli Accept avevano già pubblicato da anni i loro capolavori e se ne uscivano con "Objection Overruled", disco che segnava la riunione con il figliol prodigo Udo e sanciva praticamente la fine della prima grande era della band, da qualche anno tornata alla carica in gran spolvero con il buon Mark Tornillo che riesce nel quasi impossibile compito di non farci rimpiangere il nostro nano da giardino preferito; i Blind Guardian si preparavano a scrivere "Imaginations From The Other Side", che uscirà due anni più tardi e diventerà in breve il punto di riferimento (mai raggiunto) per tutti i gruppi dell'esplosione power-fantasy negli anni a seguire e gli Helloween vagavano in lidi più melodici con il discusso "Chameleon" mentre il fuoriuscito Kai Hansen umiliava Weikath con "Insanity And Genius" dei suoi Gamma Ray.

In questo fiorente contesto c'era anche una ulteriore realtà attiva dal 1980 che, con alcune validissime pubblicazioni alle spalle, aveva provato a cambiare nome e darsi ad un genere più commerciale ("qualcosa da classifica che suonasse come Bon Jovi") con il solo intento di diventare famosi, con risultati disastrosi per loro, e più che discreti per me: "Stronger Than Ever" dei Digger di commerciale non ha nulla, ma è semplicemente un tipico disco heavy tedesco degli anni '80 con qualche tastiera pacchiana e un po' più di melodia. Ed una copertina che definire ridicola sarebbe riduttivo.

Insomma, ritornati in carreggiata sotto il veccho monicker, e con la stessa formazione dell'ultimo fiasco, che comprendeva la presenza alla sei corde del buon Uwe Lulis, i nostri sfornano quella mazzata nei denti che risponde al titolo di "The Reaper". Mentre i primi album erano tutto sommato dei bei dischi di speed metal da cuoio, borchie, moto e birra (la fica i GD non sanno nemmeno cosa sia, specie dopo la foto di gruppo sul retro di "War Games" che vi consiglio di andare a cercare: è un gioiellino del trash) di cui è da apprezzare la sincerità estrema, con questo nuovo lavoro i Grave Digger entrano di prepotenza nell'Olimpo della scena heavy tedesca ed Europea. Composizioni dirette, veloci, solide e riff più o meno semplici ma coinvolgenti al massimo fanno da tappeto sonoro alla voce inconfondibile dello zio Chris senza mai perdere il tiro per un secondo: ascoltare "The Reaper" vuol dire ritrovarsi con il pugno alzato a fare headbanging anche in metropolitana.
L'EP "Symphony Of Death", uscito l'anno successivo, funziona come una macchina oliata alla perfezione (e ti credo, c'è Jorg Michael alla batteria), riprendendo lo stile di "The Reaper" e portandolo a livelli ancora superiori.
Il successivo "Heart Of Darkness" è dotato di composizioni leggermente rallentate ma dal felling oscuro ed ancora più rocciose.
Inutile raccontare del successo esplosivo con la trilogia medievale ("Tunes Of War", "Knights Of The Cross" ed "Excalibur"), in cui il gruppo trova la sua dimensione rendendo sempre più epiche le proprie composizioni, lavorando su dei concept storici e infarcendo i pezzi di cori perfetti in sede live.
Dopo "Excalibur" qualcosa si rompe nella macchina: Uwe Lulis se ne va dal gruppo, fonda i Rebellion e perde immediatamente tutta la sua creatività, impegnando le proprie forze per perdere una causa legale contro Boltendhal atta a poter mantenere per sè il monicker "Grave Digger" (che poi non è che ci volesse una sentenza del tribunale per capire che il gruppo l'ha fondato quell'altro e tu non devi rompere le palle).

Alla chitarra arriva Manni Schmidt, fuoriuscito anni prima dai Rage e coautore dei primi album del gruppo (quelli più sanguigni, precedenti alla svolta pseudo orchestrale), che dopo un paio di buone prove in studio, e figure misere dal vivo (almeno un assolo, UNO, potevi ricordartelo, brutto panzone), perde anch'egli la creatività e si adagia su una serie di composizioni fiacche, monotone, finchè qualche album dopo viene allontanato e sostituito con l'attuale Axel "Ironfinger" Ritt, sedicente guitar hero in forza da seimila anni nei Domain.

I Digger, reclutato questo nuovo "fenomeno" alla sei corde decidono di fare quello che farebbe qualsiasi gruppo in piena crisi di mezza età: rispolverare il vecchio repertorio e riproporre dal vivo per intero l'album di maggior successo ("Tunes Of War", ispirato alla storia e alle battaglie della Scozia per conquistarsi l'indipendenza) e pochi mesi dopo danno alle stampe quello che dovrebbe essere il seguito ideale dello stesso album ("The Clans Are Still Marching"), osannato dalla critica ma che da queste parti non s'è guadagnato nemmeno un secondo ascolto, come gli ultimi 2-3 dischi del combo.
Il tempo di pubblicare "Clash Of The Gods" poco tempo dopo, anch'esso dotato della stessa mancanza di idee e di mordente, oltre che nel lavoro di chitarra e di composizione in generale, soprattutto nel lavoro dietro al microfono di Chris Boltendahl, con gli anni sempre più annoiato, ridondante e banale sia nei testi, sia nelle linee vocali.
I riff si fanno tutt'altro che memorabili, c'è una mancanza generale di coinvolgimento dell'ascoltatore, soprattutto a livello dei cori (aspetto che in passato ha salvato moltre composizioni della band) ed, a mio avviso, un senso generale di noia sia nel produrre il disco, sia nell'ascoltarlo.

Dal cilindro indossato per l'occasione, i nostri si inventano questa operazione revival, sperando che il titolo del loro primo capolavoro smuova gli animi, ed i portafogli, dei tanti che ancora li seguono.
Sinceramente, ascoltati gli ultimi lavori, ho preso molto con le pinze dichiarazioni di questo tipo, non aspettandomi altro che l'ennesimo album mediocre e di mestiere.

Sono stato costretto a ricredermi, ma a metà.

Delle atmosfere del già troppo citato "The Reaper" c'è veramente poco: la band continua a viaggiare sulle coordinate degli ultimi lavori, talvolta strizzando l'occhio, specie sui mid-tempo, al lavoro fatto da Schmidt nel suo periodo calante ("The Last Supper" e successivi), ma qualche passaggio azzeccato c'è, per quanto il riffing, e soprattutto il lavoro solista di Ritt non mi faccia gridare affatto al miracolo. A tratti sembra però di percepire l'aggressività di un tempo del vecchio leone spelacchiato dietro al microfono.
Non me la sento di parlare di pezzi particolari, perchè se fosse per me farei un mega copia-incolla dei vari brani per ottenere 10 minuti di disco abbastanza valido, ma va dato atto ai ragazzi (vabbè, ragazzi) che la voglia di tornare ai fasti di un tempo c'è e si sente.

Ora si profilano vari scenari in cui sperare per poter apprezzare nuovamente i Grave Digger ai livelli che sarebbero loro consoni:
-Uwe Lulis impazzisce, decide di ricominciare a suonare come Cristo comanda e di tornare nel gruppo.

-Axel Ritt decide di suonare come secondo chitarrista, dando un senso pratico al suo aspetto da residuo bellico degli anni Ottanta stimolandosi a dovere con il suo nuovo collega cercando di tirar fuori qualcosa di veramente buono.

-Chris Boltendahl smette di pensare al golf e alle cazzate e decide che vuole ricominciare a fare sesso con le groupies che probabilmente non ha mai avuto, e torna a urlare come si deve.

Se non si verificheranno queste condizioni, ho paura che i Grave Digger continueranno ad essere una delle tante band che vanno avanti per inerzia, semplicemente perchè altrimenti non saprebbero cosa fare nella vita e come continuare a portare la pagnotta a casa.
Certo, sempre meglio andare per inerzia con un passato glorioso e una carriera più che trentennale alle spalle piuttosto che esplodere e spegnersi dopo due anni, come tanti, troppi gruppi odierni.
Dai, tiratele fuori 'ste palle, che ora che c'avete un'età vi escono da sole dai pantaloni. Basta solo chinarsi a raccoglierle.